Il Santo e il Ribelle

Shrila Prabhpada è stato in occidente il messaggero di una tradizione religiosa tra le più antiche dell’umanità, nonché fondatore di uno dei movimenti spirituali più autorevoli del XX secolo, egli aveva una precisa idea di società ed era portatore di una critica ai fondamenti della contemporaneità.
Pier Paolo Pasolini, travagliato poeta e testimone di un recente mutamento antropologico italiano, ha dato voce ad una critica radicale al cosiddetto “boom economico” del dopoguerra. Adesso come cinquanta anni fa, possiamo definire entrambi come inattuali e conservatori, impossibile però non confrontarsi col loro pensiero.
Il primo era un mite maestro spirituale indiano, il secondo un vulcanico artista italiano che faceva fatica ad interpretare il sacro senza comprendervi il profano.
In apparenza i due personaggi non hanno granché in comune. Leggendo le loro opere si sente però scorrere un fiume carsico di valori e una mitologia che, pur nelle differenti tradizioni di riferimento, sembrano fluire in parallelo, seppure distinte.
Negli “Scritti Corsari”, Pasolini mette in luce come l’Italia fascista fosse “meno fascista” dell’Italia a lui contemporanea, poiché l’omologazione culturale dei “nuovi italiani” era ormai la stessa per tutti: la cultura di massa direttamente legata al consumo, “tale da creare automaticamente un Potere che non sa più che farsene di Chiesa, Patria, Famiglia e altre ubbìe affini”.
Eppure Pasolini non era un moralista, né un identitario tradizionalista, semmai era contrario ad ogni ipocrisia o cecità selettiva, come quella dei suoi colleghi adoratori a diverso titolo del dio progresso. Non si illudeva che ci fosse stata un’età dell’oro cui auspicava tornare, pensava però ci fosse stata un’età “del pane”: di consumatori di beni estremamente necessari. Ed era questo, forse, che rendeva estremamente necessaria la loro povera e precaria vita. Mentre è chiaro che i beni superflui rendono superflua la vita.”
Se “fascismo” significa la prepotenza del potere, afferma Pasolini, “la società dei consumi ha bene realizzato il fascismo”. Sconsigliava Pasolini di lasciar perdere il “fascismo archeologico” che aveva “reso gli uomini pagliacci e servi”, senza però toccare davvero la loro anima che rimaneva ancorata a un modello pre-industriale e… sano.
L’omologazione del dopoguerra aveva comportato secondo Pasolini  “l’abbandono degli antichi valori contadini, tradizionali, particolaristici, regionali” trasformando profondamente e pericolosamente l’intimo sentire degli italiani.
Shrila Prabhupada, nei suoi commenti al cap 8 del primo libro del Bhagavata Purana, seppure da cieli completamente differenti, spiega nei dettagli la “vanità ingannevole” che fa bruciare di desiderio i materialisti, legata ad una “prosperità” illusoria posta a base della civilizzazione.
Dice esplicitamente Shrila Prabhupada che il progresso materiale della società, lungi dall’essere uno strumento di liberazione, è da considerare la premessa dalla quale “si sviluppa il concetto materialistico della vita, ergendosi come un grande ostacolo sulla via della spiritualità, perché incatena sempre più l’anima al suo involucro carnale e a tutte le sofferenze che gli sono legate” concludendo lapidariamente che “si definisce anartha, indesiderabile, il progresso materiale”.
Negli stessi anni dello scorso secolo quindi, due personalità così differenti, concordavano sulla decadenza dei costumi derivante dalla società industriale. Afferma Prabhupada: “Le gigantesche imprese industriali sono il prodotto di una società atea e causano la distruzione dei nobili scopi della vita umana… aumentando l’agitazione e l’insoddisfazione della gente, mentre un ristretto numero di persone vive nel più grande agio sfruttando le masse.”
Secondo Prabhupada, questo sistema economico è quanto di più innaturale ci sia non solo per l’essere umano, ma per tutto il creato, esso funziona grazie all’ingiustizia e “al lavoro di gente sfortunata”.
A differenza di Pasolini, travolto dalla sua inattualità ed impotenza, Prabhupada possedeva un pensiero organicista, pertanto la spietata analisi critica era poggiata su una visione integrata che noi interpretiamo come “gandhiana”, ma che in realtà è la base della cultura tradizionale dell’hindu pio, di qualsiasi classe sociale: il daivin, varna, ashram, dharma.
In questa visione, la vita dell’essere umano si svolge in allineamento rispetto all’incessante  muoversi del macrocosmo, dove l’alternativa al gigantismo industriale è l’economia locale, di villaggio, una vita individuale e collettiva basata non sul valore di scambio delle merci (e sulla conseguente mercificazione dei rapporti umani), ma sulle relazioni, tra umani, e tra umani  e creato tutto, dove sacro e profano si integrano nel cerchio infinito della vita e della morte, non per soddisfare bisogni effimeri, ma per realizzare pienamente l’umano in funzione del sovrumano, in un’economia della sobrietà e del rispetto sacrale della vita in tutte le sue manifestazioni.
Graziano Rinaldi

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