Homo naturalis?

Una breve riflessione da un incontro del mercoledì, satsanga con gli amici vicini e lontani dell’isola d’Elba e non solo.
Riflettendo sulla domanda di Marco a proposito della saggezza che deriva dal contatto diretto con la natura, ho pensato di integrare la risposta.
Non tanto tempo addietro feci io stesso una domanda simile al mio Gurudeva Matsyavatara.
Non riporterò la sua risposta, perché la stessa domanda in contesti diversi necessita di risposte diverse.
Pertanto mi sento di condividere questa mia riflessione con tutti voi e con Marco in particolare, che ringrazio per aver dato questo prezioso spunto.
La natura è la nostra scuola primaria.
Vivere una buona relazione di integrazione con l’ambiente naturale “rilega” e armonizza frammenti importanti della nostra personalità, chiunque ne abbia avuto un minimo di esperienza sa di cosa parlo.

La cultura vedica che stiamo studiando, non a caso trova grande ispirazione proprio nella foresta (aranya) e tra i primi inni e riflessioni mistiche di questa antica tradizione troviamo le Aranyaka, i testi della foresta.
Dante, fin dal primo canto della Commedia, seguendo una tradizione molto più antica del cristianesimo, parla di sapienza, amore e virtù.
La stessa cosa ci dicono anche i saggi vedici che hanno tramandato, prima oralmente, poi per iscritto, le aranyaka e le upanishad, antichissimi testi filosofici della tradizione indo-vedica, dove “uomo naturale” è sinonimo di innocenza, la quale può costituire il terreno fertile per una vera conoscenza improntata alla virtù, cioè all’uomo della polis, o civitas per i latini; ma le virtù né nascono né si sviluppano nel soliloquio, bensì nella relazione, che tra l’altro definisce la nostra identità personale.
Se la relazione è “solo” con la natura, l’essere umano potrà esprimere una saggezza anche molto superiore alla stragrande maggioranza dei nostri contemporanei, completamente sradicati e nichilisti, ma soffrirà di un’incompletezza dovuta non, si badi bene, alla mancanza di cultura intellettuale, bensì di quella elaborazione culturale e sociale che matura attraverso la compagnia di altri umani alla ricerca del proprio sé: il sat sanga di cui si parla nelle scritture vediche, il pan degli angeli descritto da Dante nella Commedia.
Prova ne sia che quando sono stati trovati bambini allevati da animali (ultimo caso proprio in India qualche decennio fa), questi umani, una volta reinseriti nella società, non hanno mai espresso né una vivacità intellettuale né una particolare intelligenza emotiva, e pare nessun anelito allo spirito. Questo perché le mappe cognitive ed emotive si formano nei primi tre anni di vita e poi vengono costantemente rinforzate.
Quindi attenzione a mitizzare l’Homo naturalis, perché spesso corrisponde ad un essere che non è ancora uscito dall’indistinto magma delle emozioni e dei sentimenti oscuri e inconsci che agiscono, suo malgrado, in automatico.
L’ideale vedico e di tutte le grandi tradizioni, non è questo tipo di essere umano, ma di un uomo consapevole della scintilla spirituale che brilla “nonostante” i condizionamenti della sua natura.
Infine considerate il karma individuale, che può dare risultati opposti in situazioni molto simili. Credo che Marco abbia conosciuto innumerevoli uomini (e forse donne) di mare, a contatto con la natura ecc., e immagino che non tutti esprimessero un livello di saggezza apprezzabile!
Per noi umani che vogliamo evolvere, lo studio è importante, non per erudizione intellettuale, ma per aiutarci a riflettere su noi stessi, per darci gli strumenti evolutivi necessari in questo percorso che è la vita incarnata.
Se Dante non avesse studiato “con tanto amore” il suo Virgilio, come avrebbe potuto invocarlo nel bisogno?
Che il Maestro si manifesti in carne e ossa o attraverso il “lungo studio” come nel caso di Dante, è di fondamentale importanza collegarsi a qualcuno che ci indichi la via, che non sempre è quella che appare più logica all’uomo e alla donna comune. Il Maestro ci fa vedere ciò che per ignoranza non vediamo o preferiamo non vedere, per questo non sempre siamo pronti ad accoglierlo.
Se invece ci disponiamo di buon grado, grazie anche allo studio e alla compagnia di sinceri ricercatori spirituali, possiamo suscitare in noi l’arrivo, in forme diverse, di quello stesso maestro che aiuterà Dante, non solo a salvarsi la vita nella selva, ma ad attraversare gli inferni e i purgatori della vita per consegnarci “degni di salire al cielo”, alla nostra anima (Beatrice) per l’ultimo volo.

Graziano Rinaldi

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