Il saggio può comprendere lo stolto, non il contrario.

(Quarta lezione di Marco Ferrini al seminario 2010 Isola d’Elba)

“E quale che sia l’essenza divina, pensando alla quale
un uomo abbandona il suo corpo alla fine,
proprio quella egli consegue, o Arjuna,
poiché sempre è stato assorto in quel pensiero.” C’è un passo nel Purgatorio, in cui Dante parla di un guerriero che all’atto di morire, colpito in battaglia, si raccoglie e si pente all’ultimo momento, garantendosi così dal non finire all’inferno.
Come può un abbandono così tardivo impedire la dannazione eterna?
Nell’opera dantesca potremmo riferirci alla grazia ed alla grandezza della misericordia divina, ma c’è qualcosa di più.
Intanto la “conversione” non ha a che vedere col tempo e con lo spazio proprio perché appartiene alla dimensione dello spirito. Ma un’altra considerazione mi spinge a pensare che la grazia non sia un’incomprensibile concessione.


Non c’è tradizione religiosa che possa prescindere da un “altrove” che sia anche essenza rispetto al mondo delle condizioni così come noi lo possiamo percepire coi sensi. Nel cristianesimo e nella tradizione vedica si parla rispettivamente di spirito e di brahman che, coniugato al singolare umano, si trasformano in anima e atman (c’è anche una certa assonanza!). Assumendo che lo “spirito”, collettivo o individuale, sia il “motore immobile” che muove il creato e le creature, risulta difficile pensarlo come fallibile, se così fosse mancherebbe una base ontologica alla creazione, ipotesi del resto molto frequentata fin dall’antichità.
Dunque se è molto probabile che a causa di una serie infinita di circostanze, la parte spirituale di un essere umano possa essere obnubilata, dobbiamo ammettere che comunque essa continui ad esistere anche sotto una pesante coltre di proiezioni mentali e di pulsioni di base mai elaborate alla luce di una coscienza illuminata dal principio ontologico.
Nessuno si stupirà se affermo che nella vita succede a volte di “vedere” nello spazio di un istante qualcosa che prima non avevamo mai preso neanche in considerazione; sarà stata un’idea, un sentimento, un’intuizione o qualche collegamento di cui prima ignoravamo la sintesi. Ma da quel momento “è stato”. Non è importante che sia venuto alla coscienza a nove anni o a novanta, anche se non è precisamente la stessa cosa, nella sostanza non cambia molto, non a caso Dante ha messo il suo guerriero nel luogo dove c’è da purificarsi e non direttamente tra i beati!
In questi sesto e settimo shloka dell’ottavo capitolo della Bhagavadgita, Krishna assicura al principe Arjuna che bisogna stare collegati a Lui per andare da Lui e mi pare si possa interpretare che senza aver “praticato” la virtù, sia molto improbabile che al momento della dipartita da questo mondo la mente riesca a collegarsi alla Divinità, anche se spesso si sente parlare di insondabile grazia divina, evidentemente inserita in un sistema che ci sfugge. Insomma in ogni umano, in potenza, c’è sempre l’opportunità del collegamento, nel concreto deve però succedere qualcosa che attiva il contatto, una volta attivato la realtà potrà apparire anche molto differente da prima e questo è un punto di svolta, una “sterzata” irrevocabile e che può determinare la “salvezza” rispetto alla “dannazione”.
La consapevolezza contro il buio della coscienza.
Per questo Marco Ferrini afferma che il saggio può capire lo stolto, ma non il contrario: per comprendere l’altro è necessario un livello di consapevolezza direttamente proporzionale al proprio grado di compassione. E’ dunque lo sviluppo della compassione che innalza la consapevolezza, che illumina la coscienza e che permette il cambio di paradigma.
Non so se può avvenire il contrario, ma non mi pare verosimile.
Graziano Rinaldi

Fede che pensa, fede che agisce, fede che ama.
di Marco Ferrini
APPUNTI DIRETTAMENTE DALLA LEZIONE  A CURA DI GRAZIANO RINALDI

01 gennaio 2011
Quarta lezione di Marco Ferrini

Capitolo VIII.
Fate sì che non passi giorno che non abbiate ben investito il vostro tempo nella realizzazione spirituale. Il BP racconta di un episodio in cui un grande saggio va in visita in una foresta dove si erano radunati saggi dal tutto il mondo perché avevano intuito che da lì a poco si sarebbe entrati in una fase di pessimo auspicio, la quarta stagione cosmica, Kaly Yuga. Lui era discepolo di Vayshampaiana che a sua volta era discepolo di Vedavyasa. I saggi lo accolsero con tutta la loro simpatia e gli offrirono un seggio elevato ed eseguirono tutto il rituale che serve ad apprezzare una grande personalità. Quando il saggio ebbe manifestato l’apprezzamento per il trattamento ricevuto (l’ospite nella Tradizione è importante quanto Dio, infatti è Dio che ci invia una prova nell’ospite che ci invia). Il nome del saggio era Suta Goswami, egli poteva ascoltare una sola volta e memorizzava tutto, era figlio di Roma Arshana che si era comportato in maniera orgogliosa e per quello aveva perduto la vita. Invece Suta aveva sviluppato tutta l’umiltà che permette di ascoltare e ritenere, l’orgoglio non permette di ascoltare e cancella quello che si è ascoltato. Nell’umiltà risiede il segreto dell’apprendimento. Suta Goswami aveva ascoltato Vayshampayana mentre raccontava il Mahabharata durante il sacrificio di re Janamenjaya (100.000 shloka), narrato tra le pause del sacrificio.
Nei primi quattro shloka dell’ottavo capitolo della Bhagavadgita viene inquadrata la situazione e nei secondi quattro la si definisce. Tenendo di conto della inafferrabilità dei concetti e di quanto siano espressi in così pochi versi, questo ci dà l’idea di una conoscenza, una sapienza così elevata. Una visione della vita e della morte, della natura del Signore, della prakriti, della nostra natura, mostrare la dinamica per la quale l’essere spirituale esce dal suo carcere fisico e a bordo di un’astronave sottile (fatta di materiale mentale: emozioni, ricordi, memorie, convinzioni, paure) e a seconda della consistenza della natura di questo materiale si ricollocherà dentro ad un nuovo corpo. Qui è chiaro che si debba avere il manas sempre sotto controllo, la mente è un materiale che si degenera da un momento all’altro, un’impennata di orgoglio, un desiderio di libido, un gesto di collera di aggressività, cambia l’orientamento della mente. Il cambio di umore ne è un preciso sintomo. Le persone si bloccano, intorpidiscono oppure si agitano diventano aggressive, offensive, vigliacche, sembra che non succeda nulla ma succede molto, al momento della morte si moltiplica in modo esponenziale all’effetto non c’è più un corpo fisico che trattiene le dinamiche e l’essere fionda nella sua condizione. Chiediamoci perché non esistono solo gli esseri umani! Tutti siamo in viaggio e per molti questo viaggio non è per niente evolutivo, anzi possono giocarsi le evoluzioni dei viaggi precedenti e in questo viaggio si perdono tutto! Oppure guadagnano tutto perché si dedicano a ricongiungersi con sé stessi e con Dio. Ma Dio non è subito visibile così a colpo d’occhio, dobbiamo predisporci. Per capire l’importanza di metterci in contatto con Dio, dovremmo dare uno sguardo a cosa significa vivere nell’inferno dell’inconsapevolezza, in una forma animale o in una forma umana non risvegliata, ma mentre il saggio può comprendere la vita dello stolto, lo stolto non può comprendere la vita del saggio. Occorre un certo livello di illuminazione per comprendere l’agghiacciante condizione di vita dell’ottenebrato, dell’inferno. La lussuria, l’invidia, la competizione non solo non ci permettono di vedere Dio ma neanche gli altri, ovvero li vediamo in modo superficiale.
Marco Ferrini descrive il sogno a proposito del predominio delle macchine sull’uomo.

Domande.
La consapevolezza può essere libera dai condizionamenti?
Vi sono qualità che sono ineliminabili per fare, la prima è la compassione, guardare tutto con compassione e affetto, anche persone che sono tutte tese a ostacolare, a danneggiare, perché se guardiamo con la distinzione amici/nemici alla fine si pensa di essere liberi ma ci sono forze interne che lavorano al condizionamento. Karuna e kripa, vedere tutto con compassione, perché sono i limiti delle persone che dobbiamo vedere e guardarli nel senso che la persona non ce la fa ad essere migliore. Ciò implica tolleranza altrimenti scattano meccanismi di risposta aggressiva, quindi tolleranza (titikshava) che non è un atteggiamento inattivo anzi è uno dei più attivi, bisogna essere estremamente dinamici per tollerare, coloro che fanno finta di niente perché non vogliono essere coinvolti o coloro che, tamasici, neanche vedono le mancanze; solo chi è altamente sattvico può tollerare, vede il limite, il difetto, la carenza, ma lo tollera; è un esercizio straordinario, purifica il cuore e la mente, tace e quando vi sono i presupposti parla e aiuta le persone a correggere i loro errori. Se c’è uno stato impulsivo-reattivo non funziona, ci vuole predisposizione ad ascoltare, a valorizzare a curare la persona uno può andare con qualsiasi testo sacro sotto il braccio, non funziona, bisogna andare predisposti per la conciliazione, per far notare il limite non per sminuire ma per aiutare la persona a crescere, lo spirito deve essere di cura non castigatorio. Non sempre ci sono le condizione per agire così ecco perché si deve tollerare anche per periodi lunghi e lunghissimi.

Differenza tra coscienza e consapevolezza e il loro rapporto con l’anima.
La coscienza è uno stato ontologico, non ne possiamo essere privati, è di cosa si riempie che salta poi al nostro occhio e di cui noi diventiamo consapevoli: la coscienza del maiale è piena di ghiande! E la sua consapevolezza sarà quella. La coscienza ci permetti diventare consapevoli di ciò su cui noi poggiamo l’attenzione. Bisogna dunque poggiare l’attenzione su ciò che vale la pena di essere coscienti, perché al momento della morte è quello che farà da vettore alla “metempsicosi”.
La consapevolezza è una funzione della coscienza, siamo consapevoli grazie al fatto che siamo fatti di coscienza (cit), è il potere della coscienza che permette di capire verità più elevate, ma se noi riempiamo questo spazio della coscienza da cose che limitano al mondo animale, la nostra coscienza ci serve a poco.

Com’è possibile che un sapere così antico non abbia permesso un parallelo sviluppo dei diritti in India?
Possiamo svalutare Pitagora per il colpo di stato dei colonnelli in Grecia negli anni sessanta? Platone per aver tentato lui stesso un’esperienza politica nella Magna Grecia fu venduto come schiavo e per fortuna comprato dai discepoli! L’India moderna non è ispirata da questa cultura, nonostante che per essere la più grande democrazia del mondo, i diritti civili, se non perfettamente applicati, almeno sulla carta costituzionale ce li ha. Lo stato storico che ha visto passare le dominazioni straniere a partire da poco prima del mille. Nell’ultimo millennio ben altri hanno dominato l’India. Ma infine questa cultura è portatrice di valori universali, così come Francesco non è un cattolico del XIII secolo è un portatore di valori universali.

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