Quante volte, dopo un’azione malevola da parte di qualcuno, abbiamo sentito dire: “in fondo non è una cattiva persona!”. Questa risposta è il sintomo di uno degli innumerevoli e gravi danni provocati dalla sconsiderata voglia della scuola contemporanea di privilegiare gli studi tecnico-scietifici rispetto a quelli classici e umanistici che, a mio avviso, sta alla radice dell’attuale decadenza sociale, economica e culturale dell’occidente, un virus letale, esportato anche nel resto del pianeta col nome di globalizzazione.
“Cattivo”, una parola che ci proviene dalla classicità latina col preciso significato di “persona prigioniera”. Il comunissimo aggettivo si espande così in una concettualità che trascende l’ambito morale e accusatorio per ricollegarci ad una sapienza profonda, capace di donarci maggiore serenità e una vita migliore.
Nel mito platonico della caverna1, i cattivi sono gli assassini di colui che, riuscito non si come a fuggire, torna dai suoi vecchi compagni per spingerli a liberarsi delle catene e uscire alla luce del sole.
Anche Il cristianesimo ci offre una quantità di esempi, a partire da Gesù stesso, il quale, riferendosi ai suoi persecutori, pronunziò la nota richiesta: “Padre, perdona loro perché non sanno quel che fanno”2–
Evidentemente non si riferiva soltanto ai manigoldi che lo stavano per crocifiggere, più simili quest’ultimi ai moderni esecutori di ordini omicidiari impartiti in ben più alta sfera del potere.
Spostiamoci ora al nostro tanto ingiustamente bistrattato medioevo. Nell’inferno dantesco gli ignavi sono descritti come i più degradati tra i peccatori, tanto che neanche l’inferno intende ospitarli:“era la setta d’i cattivi, a Dio spiacenti e a’ nemici suoi.”3
Cosa avevano combinato di così grave gli ignavi? Niente, non avevano combinato proprio nulla, erano infatti le anime degli sciagurati che mai non fur vivi4, coloro che non vissero mai veramente perché furono vili, mancarono cioè di usare il loro attributo divino: la libera scelta. Anche nella modernità occidentale non c’è nessuna filosofia religiosa o politica degna di questo nome, dal cattolicesimo al protestantesimo, dal liberalismo al socialismo, da F. Nietzsche a K.G. Jung, che non preveda come fine ultimo dello sviluppo umano la piena realizzazione del sé.
Possiamo ragionevolmente affermare che nella cultura occidentale il tema della cattività è sempre legato alla mancata realizzazione della libertà individuale.
Dall’oriente ci perviene una storia del pensiero diversa e, a mio avviso, più nitida, maggiormente libera di esprimersi, che scandaglia le profondità della psiche umana con una precisione chirurgica.
Dalla filosofia dell’India classica, il messaggio che ci perviene è che la cattività, il male, deriva sempre dall’ignoranza, non di quella intellettuale che anzi siamo sempre messi in guardia verso i cosiddetti eruditi. Qui si parla di avidya, l’ignoranza della vera natura del nostro essere, il primo dei grandi condizionamenti che derubricano l’esistenza umana a quella delle bestie (che però non venivano mangiate!). Il grado di virtù e di beatitudine che l’essere umano può ottenere in questa vita, è quindi proporzionale alla capacità di liberare la sua essenza, il suo spirito vitale (Atman), noi diremmo “anima”, dai condizionamenti che ci portiamo dietro dalle vite passate5 e da quelli che ci siamo costruiti nella vita attuale. Questi pesi morti che condizionano il carattere e originano le nostre credenze profonde, ci fanno desiderare, pensare, parlare e agire in una modalità non completamente libera. Per concretezza propongo di riflettere su questo passaggio:
“Vicino a chi è saldo nella non violenza (Ahimsa) nei pensieri e nelle azioni, cessa ogni conflittualità6”.
Letto nel contesto, questo sutra offre una lezione teorica e pratica utilissima che ha ispirato generazioni di grandi anime (mahatma). Per il tema che stiamo affrontando è da rilevare che quando un’anima realizza la pace, non teoricamente o intellettualmente, ma attraverso una spontanea naturalezza proveniente da una pratica spirituale assidua, questa (l’atman) è capace di espandere la sua potenza come fosse un campo magnetico. E’ la trasduzione dello spirito in psiche attiva.
Qualcuno ricorderà il fioretto di Francesco d’Assisi del lupo di Gubbio. Sebbene riportato in forma agiografica, che sia verità o metafora poco importa, quel che ci comunica è lo stesso insegnamento di Platone, di Gesù, di Dante e di Patanjali: cattivo è colui che è prigioniero di una psiche condizionata. All’opposto sapienza, amore e felicità si originano dalla “libertà da”, ovvero dall’oppressione della polis per Platone, dal peccato per Francesco, dai condizionamenti per Patanjali; tre accezioni che accentuano rispettivamente più l’aspetto politico dell’antica Grecia, quello morale del nostro medioevo e quello psicologico dello Yoga classico.
Graziano Rinaldi
1. Platone. Repubblica, Libro settimo.
2. (Lc. 23. 33,34)
3. Inferno, III, 62, 63.
4. Ibid.
5. In questa visione dell’essere, le vite precedentemente vissute comportano un carico psichico che si manifesta in tendenze (guna) e condizionamenti (karma) del carattere della vita in corso.
6. Patanjali, Yoga sutra, Sadana pada, sutra XXXV.