Ho sentito parlare del fondatore della ISKCON, lo Swami Shrila Prabhupada che dopo aver commentato il quinto capitolo del Bhagavata Purana fu colpito da un infarto.
Leggendo più volte le sue note, sono passato dal giudizio all’affetto.
Quest’uomo ha trasformato la sua vita nella “missione impossibile” di convertire i materialisti occidentali e i karmi indiani ad una visione intima della divinità, talvolta usando parole infuocate, dure, inattuali, come nel caso delle donne e degli shudra (in pratica la quasi totalità della popolazione contemporanea).
In un mondo che stava fieramente imboccando il largo sentiero del relativismo e dell’eclettismo, attraverso il commento alle parole di Narada (maestro spirituale di Vyasadeva),
Prabhupada “condanna apertamente lo spirito di compromesso di Vyasa”; afferma che Vyasadeva “non avrebbe dovuto compilare nessun altro Purana oltre al Bhagavata Purana”, nello stesso momento in cui la ricerca della libertà, collettiva e individuale, coincideva con l’edonismo scrive: “non sono da condannare solo le opere di letteratura profana… ma anche quelle a base di speculazioni sul Brahaman impersonale e le Scritture vediche che non trattano direttamente del servizio di devozione”; negli anni in cui le persone erano ipnotizzate dalla gara per arrivare sul nostro satellite, ipotizza che gli abitanti della Luna “godano di un maggior benessere grazie a una bevanda”.
Sarei ipocrita se provassi a farmi corrispondere completamente questa visione, ma sento che contiene una potenza trasformativa commovente, una spinta rivoluzionaria per le persone condizionate da una visione positivista.
Vyasadeva rappresenta il passaggio della Tradizione dall’oralità alla scrittura, Narada integra e corregge il tiro di Vyasadeva che la Isha Upanishad lapidariamente descrive con una frase:
“…in tenebre ancora più oscure sprofonda chi la conoscenza ce l’ha”.
Infatti, senza un movimento del cuore verso il punto d’origine di ogni coscienza particolare, la perfetta conoscenza dei Veda e del Brahaman, rimanendo nella dualità della mente, può divenire luciferina. Prabhupada cita l’esempio degli animali sacrificati nei riti vedici, ma nella contemporaneità è chiaro a chiunque non si autocensuri che qualsiasi conoscenza può divenire motivo di adharma (ingiustizia) e supplizio per le creature e il creato.
In un clima ultra positivista ed economicamente barbarico come quello che stiamo vivendo, la grande difficoltà e l’enorme guadagno, consistono proprio nello scatto verso quel sentimento di unione diretta con Dio. Se i contemporanei di Vyasadeva potevano essere sviati e degradati perché compivano azioni religiose corrette, ma egoiche, ossia per averne dei benefici materiali; noi contemporanei, vivendo una realtà storica tutta appiattita sul secolare e una vita personale dissacrata, ci siamo costruiti un politeismo idolatra guidato dal piacere, più simile al vitello d’oro che all’impersonale brahman.
Il Quinto capitolo del Bhagavata Purana è un primo passaggio molto difficile per i nostri cuori induriti dall’utilitarismo, ma indispensabile per uscire dalla sofferenza di una vita e una morte insignificanti. Abituati come siamo a concepire il mondo e noi stessi come involuti in un’insensata frammentazione, possiamo anche capire con la mente che per trovare pace dobbiamo unire ciò che “per l’universo si squaderna” (per citare il Poeta), ma altra cosa è realizzarlo nel cuore, passare dal capire al sentire. Nella conoscenza dei testi sacri altro non possiamo trovare che dei manuali d’istruzione al “transumanare”, poi sta a noi voltare lo sguardo dall’esterno all’interno, altro non si può dire, da lì in poi diventa un colloquio animico, dove ragione, cuore e anima si riuniscono in una dimensione che è sé e Dio insieme, lì troverai l’amico che hai sempre cercato, dove si scioglie il duro giudizio e la gioia diventa persino imbarazzante. Le tecniche servono, la conoscenza dei Veda è indispensabile, ma poi, dice Narada a Vyasadeva, devi conoscere Vasudeva, altrimenti tutta questa conoscenza diventa una protesi inutile e ingombrante.
Narada indica pertanto a Vyasadeva la modalità con la quale avrebbe curato il suo disagio e contemporaneamente liberato gli esseri umani dalla loro schiavitù materiale: descrivere ciò che è direttamente legato al Signore, i suoi lila. Narrando la vita di Krishna, come nel mito occidentale, si costruisce una nuova forma mentis, una trasformazione poetica che rende accessibile il sacro.
I Veda infatti, come anche il Mahabharata, sono testi incentrati sul dharma, ma senza il contatto personale col Signore, gli shastra si riducono a regolamenti per vivere ordinatamente nel mondo, che nel nostro tempo sarebbe già un successo enorme, ma non è questo il fine della vita che consiste nell’incontro diretto col Divino, che allo stesso tempo è la nostra vera essenza.