Se non siamo attratti da un crudele feudalesimo tecnologico e distopico, dovremmo seguire la strada opposta e, come già detto nell’articolo “Non c’è più religione?” fare una vera e propria rivoluzione (=ritorno al punto di partenza).
Se per risollevare le pessime sorti involutive in cui ci siamo avvitati, dovessi prendere lo spunto da un testo sapienziale tra i più antichi dell’umanità, mi rifarei a una brevissima upanishad, di soli diciotto versi, totalmente inauditi per l’uomo e la donna contemporanei.
Lì c’è tutto quanto serve per (come dice il mio Maestro Matsyavatara), “rimettersi a squadra”. Sono mantra nei quali trovare la chiave di volta per una rinnovata e felice vita individuale e collettiva, poi sta a te costruire l’edificio, sapendo di avere tra le mani la conoscenza della pietra filosofale, il segreto della felicità e del benessere.
Anche soltanto il primo verso sarebbe sufficiente a porre le basi di un mondo veramente nuovo. Se invece andassimo oltre, potremmo scoprire anche quel che tormenta la filosofia fin dai tempi della scuola di Atene: la riconciliazione tra essere e divenire.
Noi ci accontenteremo di più umili risultati.
Come in un naufragio, il primo movimento automatico consisterà nel trovare qualcosa a cui appigliarsi per non affogare.
Il primo legno/verso che ci viene incontro è già la nostra salvezza:
questo mondo NON ci appartiene, lo abbiamo in uso, non è nostro. Siamo ospiti di un proprietario generosissimo che ci lascia fare quel che vogliamo, con l’accordo che risponderemo della gestione.
Di più, siamo fin dalla nascita cittadini legittimi e possessori di parte della sovranità ceduta dal Proprietario stesso. Insieme a miliardi di miliardi di altre creature, facciamo parte di uno straordinario condominio, in cui ci sono regole precise e imparziali come algoritmi.
Una cosa tiene tutto quanto legato assieme: come in un ologramma, ogni particella di questo mondo, per quanto minuscola, manifesta le caratteristiche dell’intero. Non ci sono né servi né padroni, spetta ad ognuno fare bene la sua parte perché nella mutevolezza del divenire si conservino l’eternità dei cicli e della vita.
Certe affermazioni, lo so, sembrano moralistiche e fumose se non se ne fa esperienza. Fortunatamente, per chi lo vuole, lo si può fare, con una prevalenza di sentimento o di razionalità, ma ogni essere umano può intravedere il suo status di “immortale” e intuire che quel che appare desiderabile alla stragrande maggioranza, è spesso la causa della rovina personale e collettiva dell’umanità.
Isha Upanishad, nella prima strofa indica l’uscita dal tunnel: “di tutto fruisci avendo rinunciato”.
Sembra una contraddizione, eppure è la chiave d’accesso alla felicità.
La traduzione di questo primo verso che fece B.S. Prabhupada, superando d’un balzo le poderose connessioni filosofiche e mistiche del testo, ne diede un’interpretazione più adatta alle nostre menti:
“Il Signore possiede e controlla tutto ciò che esiste in questo universo, sia l’animato che l’inanimato. Noi dobbiamo quindi usare solo il necessario e accettare solo la parte che ci è stata assegnata, sapendo bene a chi tutto appartiene”
Mettiamo che a qualcuno non andasse giù questa “proprietà privata del Signore”, parliamone come se il mondo fosse un misterioso intreccio di vita e di morte, di organico e inorganico, com’è di fatto. Senza scomodare una divinità, bisognerebbe comunque ammettere che ci sono leggi fisiche che governano ogni aspetto dell’universo, dalle galassie alle sub particelle atomiche. Tra gli umani che ancora ragionano, qualcuno pensa che tutta questa meraviglia sia governata da una gigantesca intelligenza che prende il nome di un Dio; altri la vedono come indifferenziata energia mistica diffusa in ogni particella dell’universo; altri ancora pensano che la materia si sia originata e si sviluppi secondo leggi che l’uomo sta pian piano scoprendo.
A prescindere dalla prospettiva in cui ci poniamo, tutti possiamo capire che facciamo parte di qualcosa di più grande di noi. Anche senza guardare il cielo stellato, è sufficiente raccogliersi in un momento di silenzio o ricordare gl’interrogativi della nostra infanzia per intuire che siamo tutti strettamente collegati, non solo tra umani, ma perfino con quel sottilissimo strato di atmosfera che racchiude e dà la vita al pianeta.
L’invito quanto mai necessario alla sobrietà e al rispetto che troviamo nel primo verso di Isha Upanishad, potrebbe però essere frainteso. Infatti chi agisce, se, com’è certo, è all’interno di condizionamenti, di visioni ristrette di appartenenza, percependosi come un io separato, facilmente cadrà nell’illusionismo delle merci. In questa condizione, quel che la persona crede “necessario”, altro non sarà che il frutto di un pensiero ignorante delle vere necessità e proiettato sulle “cose”, sul potere, sul prevaricare.
L’uomo, in quanto “animale politico”, cioè prodotto della polis (città stato greca), ne assume il modus vivendi, ovvero i principi su cui s’incardina l’ordine sociale, familiare, di status ecc. Per uscire dalle identificazioni e ritrovare se stessi, i nostri veri bisogni, dobbiamo accedere ad una dimensione di autenticità che non sta sul piano dell’io e mio.
L’ego ci spinge verso l’appagamento del piacere momentaneo e l’illusione di appartenenza, in un delirio di appropriazione che si autoalimenta. La ricerca spirituale (che paiono solo due parole da preti) invece, ci offre la possibilità di agire nel mondo in piena consapevolezza di quel che siamo, senza attaccarsi a niente e nella gioia nostra propria, perché noi siamo intrinsecamente desiderio di felicità, è che spesso ci sbagliamo rispetto al luogo dove cercarla.
Per diventare gioiosi nel profondo, non nella superficialità dell’ego, dobbiamo diventare liberi.
E non è vero che nasciamo liberi, la libertà è un atto creativo che si ottiene con un costante lavoro interiore, che non vuol dire intellettuale, vuol dire nella propria interiorità e lo può fare chiunque.
Si chiama “ricerca spirituale” e non analisi psicologica, perché è uno sguardo di noi stessi dall’alto. Dobbiamo uscire totalmente dalle condizionalità se vogliamo incamminarci verso la libertà.
Lo spirito non è una sostanza misteriosa, siamo noi stessi quando non siamo alienati, ovvero liberati dalle corazze dei condizionamenti.
Liberi appunto.
Graziano Rinaldi