Dante e la splendida sofferenza dell’ostrica.

divina commedia

Il prossimo 25 marzo, giorno in cui il Dante pose l’inizio del suo viaggio ultramondano, inizieranno i festeggiamenti del settimo centenario della morte del poeta.
Nella notte tra il 13 e il 14 settembre del 1321, moriva infatti Dante Alighieri.
In quel tempo il Poeta lavorava presso Guido Novello da Polenta, signore di Ravenna, stessa famiglia di della stessa Francesca che Dante immortalerà nel secondo girone dell’inferno.
Da ventuno anni, ovvero da quando fu esiliato da Firenze e condannato a morte, l’autore del “poema sacro al quale ha posto mano e cielo e terra…” (Par. XXV, 2) visse da esule sotto la protezione di qualche mecenate.
Di ritorno da un’ambasceria ben riuscita a Venezia, dovette attraversare le valli di Comacchio, dove probabilmente gli fu fatale la malaria.
Dante fu uomo che subì un grave torto.
Un genio che ha provato “come sa di sale lo pane altrui, e come è duro calle [strada] lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale.” Sempre col timore di essere consegnato ai suoi iniqui carnefici e con la nostalgia di Firenze nel cuore.
Da questa sofferenza e dal nuovo desiderio di ritornare a Dio, piuttosto che a quella piccola patria mondana, nascerà il poema più imponente e bello della cristianità.
Karl Jaspers sintetizza in una celebre frase la metamorfosi del dolore (e della follia) in genialità:
“Lo spirito creativo dell’artista… può essere metaforicamente rappresentato come la perla che nasce dalla malattia della conchiglia.”
La perla che Dante ci ha consegnata è un viaggio all’interno di noi stessi.
Sotto l’alta letteratura e le infinite allegorie, si deve infatti rintracciare un percorso iniziatico di purificazione, cambiamento e riconoscimento della nostra reale natura.
Il persistente interesse per la Commedia dopo sette secoli, si spiega solo col fatto che l’opera è da assimilare ai grandi testi delle tradizioni religiose, come l’Antico e il Nuovo Testamento.
A qualcuno potrà sembrare blasfemo, ma l’intento di Dante fu proprio quello. Lo afferma più volte lui stesso e lo sostengono tante esegesi.
Soprattutto però lo dimostra una lettura ben guidata della Commedia, fatta con un maestro spirituale che illumini i passaggi altrimenti oscuri, talvolta persino privi di senso, di cui è costellata l’opera.
Chi non voglia fermarsi al senso letterario, dovrà sentir risuonare nel cuore quel che ascolta. Allora lo splendore delle parole e la stupefacente costruzione delle terzine, diverranno chiavi d’accesso alla sapienza ed infine apriranno il cuore all’intima natura umana.
Proprio in questo filone interpretativo, non post-romantico, ma totalmente spirituale, s’inserisce l’esegesi e il confronto con l’opera più significativa del pensiero e della spiritualità indo-vedica proposta dal maestro Marco Ferrini, la Bhagavadgita.
Una nuova e affascinante prospettiva, una filosofia perenne che spazia attraverso i millenni e da un capo all’altro del nostro pianeta. Un ponte tra oriente e occidente, alla ricerca di un comune denominatore che unisce ed eleva la natura umana, reintegra col cosmo ciò che è frammentato nel mondano.
Forse l’unica soluzione all’imperante nichilismo.
Graziano Rinaldi

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