Chi è Tat?

La parola inglese that ha una certa assonanza col vocabolo sanscrito tat.
Sarà una coincidenza ma a distanza di millenni e di migliaia di chilometri, that e tat significano entrambi “quello”.
Gli antichi maestri vedici, per quanto illuminati e poeti raffinatissimi, non sono riusciti a dire più di Tat per indicare “quello”.
“Quello” è talmente pieno di senso che non è possibile definirlo, è letteralmente incontenibile, nel senso di debordante.
Tat appartiene ad una categoria altra, nel sacro è il sancta sanctorum, il giardino nascosto dal quale emanano gli universi visibili e quelli invisibili.
Noi contemporanei, avendo sviluppato come mai prima d’ora, una straordinaria capacità di analisi, lo chiameremmo Sé, Dio, l’Uno, ma è anche il tutto… e scopriamo che la mente non può seguire il ragionamento.
Tat è l’origine, il mezzo e la fine.
Le upanishad ci rimandano insistentemente alle corrispondenze tra micro e macro, ci insegnano che ciò che non si vede è all’origine del manifestato, ci fanno capire che non basta “essere” qui e ora col corpo e con la mente, anche se avessimo l’intelligenza più acuta tra gli umani, dovremmo esserCI per entrare nella dimensione del tat, dovremmo percepirCI in quell’essenza che è in comunione col tutto, che E’ tutto.
In questo senso Dante apre uno squarcio di luce nell’ultimo canto del Paradiso:
“Nel suo profondo vidi che s’interna legato con amore in un volume, ciò che per l’universo si squaderna…”
Il Poeta ha dovuto percorrere 99 canti, dalla selva oscura, giù per l’inferno, poi su per il purgatorio e infine volare nei sette cieli, prima di poter ficcar lo viso per la luce etterna, ma solo per un attimo, perché l’umano non sopporta a lungo il sacro.
E noi?
Noi che ci arrabattiamo per dare un’organizzazione decente alla quotidianità, che speranza abbiamo di percepire l’Uno nel molteplice?
Come può il nostro intelletto affacciarsi a quella luce senza accecarsi?
E’ sufficiente un’integrità morale rigorosa e la coerenza di chi pratica ahimsa?
La liturgia degli esercizi spirituali, ha davvero il potere di farci vedere il mondo dall’altra parte della finestra?
Non è scienza d’esperienze (esperimenti) ripetibili, siamo al centro del mondo soggettivo, quel che vale è ciò che si può esperire: ognuno può riferire solo per l’esperienza che ha fatto, come Dante novecento anni fa.
Non è una questione di tempi storici, né di cultura, forse la poesia e l’arte più in generale, possono dialogare col sacro senza bruciarsi.
E chi poeta non è?
Quelli come noi, buttati nell’universo senza nessuna protezione, nudi di fronte alla morte, armati di ridicole credenze compensative, che possono?
Ognuno trovi la sua strada, il suo maestro, le credenze che gli piacciono di più, è bene che rimanga questa libertà.
Personalmente penso che senza la supervisione di una persona realizzata, senza una conoscenza di base sui cardini dell’esistenza umana (non contemplata nella scuola dell’obbligo, tantomeno in quella superiore), senza principi etici ben collaudati e senza coerenza e umiltà, sia come lo sbattere d’ali di un uccello in gabbia.
Ma se non riusciamo a trovare una strada maestra, almeno mettiamoci in cammino per i sentieri che conosciamo.
Mi pare che questo volesse dire Francesco nel Cantico delle Creature.
Di fronte all’inesprimibile tat, nullu homo ène dignu te mentovare, almeno lodiamo e rispettiamo il Creato e le sue creature: laudato sie, mi’ Signore, cum tucte le tue creature, tra le quali, non dimentichiamolo, ci sono anche gli umani.
La nostra mente non è recipiente capace del sacro, lo sia allora della compassione!
In ogni particella del creato noi possiamo trovare un senso più alto, nella sua complessità e bellezza, nella grandiosità come nelle dure leggi della natura c’è una corrispondenza tra noi e l’universo che non siamo più abituati a percepire, schiavi di una follia narcisista, penetrata talmente all’interno del cuore umano, da partorire sogni tanto megalomani quanto insensati.
Fomentati nell’animo da una tecnica raffinatissima, cerchiamo la felicità ed otteniamo solo eccitazione, poiché senza com-patire col resto del creato, è come seminare sulla nuda roccia.
Se il nichilismo è mancanza di un fine, l’amore è ritrovare il senso della vita nelle infinite relazioni col creato, all’interno di un ordine cosmico che non dipende da noi, né possiamo modificare con nessuna tecnica, ma col quale certamente possiamo dialogare cum grande humilitate.
Graziano Rinaldi

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