Sono un pubblicitario

“Sono un pubblicitario: ebbene si, inquino l’universo.  Io sono quello che vi vende tutta quella merda. Quello che vi fa sognare cose che non avrete mai… Io vi drogo di novità, e il vantaggio della novità è che non resta mai nuova. C’è sempre una novità più nuova che fa invecchiare la precedente. Farvi sbavare è la mia missione. Nel mio mestiere nessuno desidera la vostra felicità, perché la gente felice non consuma.”
Frédéric Beigbeder

Americano di origine tedesca, è stato uno dei pubblicitari più pagati del novecento, nel 2000 pubblica per Feltrinelli Lire 26.900, un romanzo su un suo alter ego e dal quale proviene questa citazione.
«La moltitudine di quelli che avevano creduto aveva un solo cuore e una sola anima, e nemmeno uno diceva che fosse sua alcuna delle cose che possedeva. Ma avevano ogni cosa in comune… Infatti non c’era fra loro uno solo nel bisogno, poiché tutti quelli che erano proprietari di campi o case li vendevano e portavano il valore delle cose vendute e lo depositavano ai piedi degli apostoli.  Quindi, si faceva la distribuzione a ciascuno, secondo che ne aveva bisogno».
Capitolo IV, 32-35 degli Atti degli Apostoli
“In una fase piú elevata della società comunista… dopo che con lo sviluppo onnilaterale degli individui sono cresciute anche le forze produttive e tutte le sorgenti della ricchezza collettiva scorrono in tutta la loro pienezza, solo allora l’angusto orizzonte giuridico borghese può essere superato, e la società può scrivere sulle sue bandiere: ognuno secondo le sue capacità; a ognuno secondo i suoi bisogni!”
K. Marx     Critica del programma di Gotha
Di seguito cercherò di spiegare cosa c’entrano queste citazioni con la Isha upanishad.
Mentre partecipavo al primo seminario sulle upanishad di Marco Ferrini (Isha Upanishad), non mi è parso di ricavare più di quel che già non sapessi. Una volta tornato a casa però, dopo il sonno di una notte, ho realizzato che quel che avevo sentito era stato un catalizzatore rispetto alle mie conoscenze della tradizione vedica. In particolare mi si è chiarito come il cardine di questa filosofia (di vita) sia la Bhagavadgita, sintesi e fondamento di un gigantesco sistema antropologico, straordinariamente complesso e allo stesso tempo di una semplicità disarmante. Tra gli innumerevoli spunti che si possono trarre nella narrazione della Isha Upanishad da parte di Marco Ferrini, ne colgo, per quel che posso, soltanto uno, la relazione tra rinuncia e felicità. Avevo già ascoltato qualcosa di simile durante le lezioni del Maestro sulla Bhagavadgita, là dove si dice che il saggio si tiene alla larga dai cosiddetti piaceri che hanno un inizio e una fine, perché sono forieri di infelicità. Con l’ascolto del primo mantra della Isha Upanishad ho fatto il collegamento: “Il Signore pervade tutto ciò che si muove e che non si muove in questo universo.  Noi dobbiamo usare solo il necessario e accettare solo la parte che ci è stata assegnata, sapendo bene a chi tutto appartiene.” Quella che fino ad allora mi era apparsa come una pratica adatta alla vita monacale e decisamente eccessiva per i “laici”, è subito diventata materia del quotidiano. La serenità emotiva, fondamento di una vita felice, si costruisce sulla sobrietà, non sull’opulenza, sulla consapevolezza del proprio status (leggi swadharma) e non sull’illusione del consumo. Non la piatta eguaglianza, argomento da demagoghi, ma la visione della nostra posizione nell’universo, ci salverà dal nichilismo e dalla depressione. La rinuncia è quindi la più alta forma di consapevolezza e autodeterminazione. “Usare solo il necessario”, il necessario per cosa? E’ qui che si dispiega il velo dell’illusione. A quali narrazioni aderisci? Sulla base di quali convinzioni profonde modelli il tuo comportamento? Che cosa stai facendo per gestire le emozioni? Con quali sentimenti affronti il mondo fuori e dentro di te? In questa visione, dedicarsi allo Spirito non vuol dire abbandonare il mondo, qualcuno può farlo, ma non è la via caldeggiata dalla Bhagavadgita e dalla cultura che l’ha prodotta, compresa la Isha Upanishad. La realizzazione spirituale è libera militanza nel mondo, coi mezzi che ognuno trova a disposizione.
Imparare la rinuncia è l’unica possibilità reale di essere liberi.
Ciò che rende possibile la rinuncia non è la sofferenza della carne, la soppressione del desiderio o il piegare lo spirito alle ferree regole della religione. Questa upanishad ci raccomanda la felicità, non il masochismo. Per questo ci parla della sobrietà e non dell’annichilimento. Sobrietà fa rima con felicità, ma ci deve essere un fine che dona il naturale diritto al “necessario”.
Il necessario è per la realizzazione del nostro spirituale che in questa visione non può essere scollegato da “l’inanimato e l’animato di questo universo”. E’ un messaggio chiaro, semplice e dalle cui profondità possono nascere le più sane intuizioni e realizzazioni individuali e sociali. Come ci dicono, in modi e con finalità diverse il Nuovo Testamento, Karl Marx e Frédéric Beigbeder.
Graziano Rinaldi

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