Non può essere che così

E’vero che Ascoltando le storie del Mahabharata, l’uomo contemporaneo può ancora imparare molte cose utili per rendersi la vita più piena e soddisfacente, specialmente se coadiuvato dal commento di un maestro spirituale, ovvero di una persona che questi insegnamenti li ha ben assimilati.
Ma a mio avviso non è questo il focus dei racconti epici che hanno accompagnato la storia dell’umanità.
Se fosse soltanto una questione di insegnamenti morali-psicologici/come vivere bene nel qui e ora, ridurremmo le grandi narrazioni come il Mahabharata, l’Odissea, il sumero Gilgames e finanche l’Antico Testamento a testi didascalici, precetti morali per educare buoni sudditi.
Sarebbe come parlare di una pianta d’olivo nei termini di quanto olio può produrre, della sua qualità e di altre caratteristiche chimiche come l’acidità ed il sapore.
Avete mai provato a sostare qualche minuto in contemplazione di una vecchia pianta d’olivo?
L’emozione che vi ritorna è quella di una contabilità agronomica?
Quel “molto di più” è il sacro.
Del sacro però non si può parlare in termini razionali, semplicemente perché non abita la dimensione della razionalità. Eppure noi “sentiamo” di partecipare a questa dimensione non razionale, ma non sappiamo dirlo che con le emozioni.
La mitologia epica è il tentativo paradossale di parlare del sacro descrivendo il profano.
Mi spiego.
Leggere il Mahabharata come una grande epopea del dharma non è sbagliato, è riduttivo.
Se andiamo oltre l’antropologia, possiamo constatare che in tutte le epiche l’eroe, di solito umano, più frequentemente mezzo umano/mezzo divino, interagisce con la divinità. Milioni di parole, antichi e voluminosi libri pieni di versi che narrano gesta eroiche, avventure sospese tra l’aldiquà e l’aldilà, tutto ci parla di due mondi che faticano a stare insieme con armonia, il sacro e il profano.
Questo mi pare l’insegnamento centrale delle grandi epiche, rilegare ciò che si presenta squadernato, trovare una via d’uscita alla crisi dell’uomo incarnato che avverte una spinta verso l’assoluto.
La via che ci propone il Mahabharata è concreta e coerente con le radici della tradizione vedica: “Combatti Arjuna, è il tuo dharma! E fallo disinteressatamente.”
La realizzazione spirituale coincide con la piena realizzazione della vita incarnata, lo spirito deve fare esperienza della “carne”, è per questo che si trova incarnato!
Quando sento dire che è nella crisi che si realizza lo spirito, mi pare ci sia un frainteso.
La crisi fa bruciare il terreno sotto i piedi, è quindi necessario spostarsi dalla sofferenza e in questo spostarsi capita d’incontrare santi e briganti. Mettiamo che ci collochiamo coi santi, da lì inizia il “percorso benessere”, ma soltanto nella piena realizzazione di questo “benessere” sta la realizzazione. Tant’è che uno dei cinque nyama prescritti da Patanjali è Santosha, secondo il padre dello Yoga non ci può essere né liberazione né progresso se insieme al rigore ascetico, alla purezza, allo studio delle scritture e all’abbandono a Dio, non c’è quel profondo appagamento che si esprime negli occhi luminosi di chi è realmente e profondamente felice.
Se letto senza pregiudizi, il Mahabharata è un grandioso manuale per rendersi felici, per vivere la vita planandoci sopra pur restando coi piedi ben saldi a terra… paradosso?
Si, com’è paradossale la vita!
Dico “manuale” non metaforicamente, poiché nella vita incarnata ad ogni passo c’è un pericolo, senza una buona guida, una guida esperta e benevolente, non c’è verso di uscire dalla selva. Una buona guida ci lascerà ampi margini d’azione, non imporrà paletti d’acciaio col filo spinato, ti spiegherà che se vai per quel sentiero è facile che tu incontri l’uomo nero, se prendi l’altro troverai fungi e castagne, in questo è razionale, ma se è anche una guida spirituale ti farà realizzare che ognuno deve percorrere il proprio sentiero perché ogni essere è un unicum, ognuno deve soddisfare il proprio daìmon e lo può fare solo nella carne e attraverso la carne.
Può esistere realizzazione spirituale se negli angoli reconditi del cuore sussiste rimpianto e frustrazione?
Io non credo.
Senza aver attraversato l’inferno, senza averne preso coscienza ed elaborato il lato oscuro in quel purgatorio alchemico che chiamiamo coscienza, è più facile vivere di proiezioni e di nevrosi compensatorie che di realizzazione spirituale.
Detta così può sembrare scoraggiante, ma leggendo il Mahabharata vediamo che è possibile e gradevole sanare la frattura interiore tra la rinuncia al mondo ed il perdersi nel mondo, nella sintesi della Bhagavd Gita (sempre di Mahabharata si tratta!), è chiarissimo che la felicità, anzi la beatitudine, deriva proprio dalla congiunzione tra storia e sé, la capacità di far risplendere nella carne quella scintilla luminosa che è vita e senso dell’esistenza.
Graziano Rinaldi

Rispondi