Finito ieri il 6° seminario sul Mahabharata, la grande epica indiana che dovrebbe essere insegnata nelle scuole insieme all’Iliade e all’Odissea. Noi siamo stati fortunati, poiché la narrazione del secondo libro del Mahabharata da parte di Marco Ferrini, è stata introdotta ed integrata con continui riferimenti all’epica greca degli omeridi.
Aldilà degli aspetti letterari e mitologici che pure varrebbero da soli di dedicarvi anche le ferie d’agosto, oltre quelle natalizie, questo seminario ha ispirato in me e mi pare anche in molti partecipanti coi quali ho scambiato opinioni, innumerevoli nuovi punti di vista sull’umanità e sulla vita.
Tra tutti ne scelgo uno che forse non è neanche il più alto, ma dal mio punto di vista è stato assai illuminante.
Siamo ai prodromi di una guerra disastrosa somigliante alla fuga di Elena con Paride che scatenerà la furia Achea. Il principe Yudistira è uomo “buono e giusto”, mai verrebbe meno ai doveri impostigli dal ruolo e dall’aderenza ad una tradizione che significativamente si fa chiamare Sanatana Dharma, dove sanatana significa eterno e dharma potremmo tentare di tradurlo con diritto naturale, etica universale, leggi naturali di questo universo, ecc. ecc.
Invitato dalle più alte autorità della Tradizione a diventare imperatore del mondo per le sue caratteristiche semidivine, Yudistira deve far celebrare un sacrificio appartenente ad un’era precedente, nel quale era prevista anche una prova ordalica.
Seppure riluttante, l’aspirante imperatore celebra il sacrificio ed impone la sua autorità sugli altri re, ma un cugino invidioso lo sfida alla prova ordalica che consiste nel rimettere la decisione… ad una partita coi dadi. La vicenda è molto complessa e travagliata, per riassumere: chi perde dovrà abbandonare tutto e vivere per 13 anni nella foresta senza altro che un vestito di pelle di cervo. Yudistira coerentemente coi principi della Tradizione, non si sottrae alla partita che sapeva in partenza sarebbe stata vinta dal perfido cugino.
Ed infatti è costretto a lasciare la sua splendida residenza regale per recarsi coi 4 fratelli e la comune moglie nella foresta.
Vicende che potremmo relegare nelle curiosità letterarie se non fosse per il contesto mitico ed il senso “religioso” che esprimono.
Premetto che la lettura del Mahabharata senza la guida di una persona che vive nella Tradizione come Marco Ferrini, sarebbe interessante, ma a mio avviso priva di spessore com’è ovvio per l’uomo tradizionale e del tutto incomprensibile a chi si approcci a questa letteratura con spirito puramente accademico-letterario.
Quello che fin dall’inizio colpisce è la perfetta compostezza ed autocontrollo col quale Yudistira si adegua alle vicende sempre più incalzanti che lo vedono protagonista e delle quali dà l’impressione di essere pienamente consapevole se non preveggente fino alle più drammatiche conseguenze.
Da cosa deriva questa interna ed irremovibile imperturbabilità del re?
Perché non si oppone ai malvagi personaggi che tramando ed ingannando vogliono la sua rovina per impadronirsi delle sue ricchezze? Potrebbe rifiutarsi di giocare una partita controversa, potrebbe sconfiggere in una leale battaglia sul campo i suoi nemici, ma non lo fa, con una coerenza che a noi contemporanei potrebbe apparirci masochista, segue pedissequamente le prescrizioni della tradizione, persino nella parte assolutamente incomprensibile (per noi) dell’ordalia. Ma come, in una tradizione così evoluta come quella vedica, è previsto un rito ordalico? Ebbene sembra proprio di sì. Questo fa derubricare la Tradizione a qualcosa di rozzo primitivismo?
Torniamo all’imperturbabilità di Yudistira.
Lui è il custode della Tradizione, poteva metterla in discussione? Io penso di si, se avesse ritenuto che non fosse più valida. Se non l’ha fatto vuol dire che il messaggio che l’autore ci vuol passare è un altro.
Lo stato d’animo sempre sereno del re, sebbene intorno a lui si stessero condensando vicende torbide e violente delle quali si capisce è ben consapevole, queste lo feriscono nell’animo come più tardi nella carne, ma rimane in lui una luce inestinguibile che illumina il suo agire anche nel buio dell’inganno e dell’odio, anche quando sa che le disgrazie che gli piombano addosso sono provocate da menti malate d’invidia e di superbia. Qui sta il punto, in questa serenità che non muore quando tutt’intorno sembra cadergli addosso. Non è anaffettività, non si tratta di glaciale distacco dalle cose del mondo, lui c’è tutto dentro al mondo e vi sta da protagonista… e proprio per questo segue il dharma! Il suo dharma, quello di re che gli attribuisce la responsabilità di garantire il benessere di tutti gli esseri del suo regno, non solo degli umani. E’ la certezza di essere nel dharma, di avere fatto tutto quello che doveva seguendo i principi etici che reggono l’universo intero. Yudistira sopportava ingiurie ed inganni e certamente ne soffriva, ma nel suo essere era protetto dallo scudo del dharma.
Per tutti quelli che come noi, non sono destinati a diventare imperatori del mondo, cosa ci insegna la vicenda di Yudistira? Non è necessario strizzarci il cervello, basta andare con la memoria a qualche vicenda nella quale noi avevamo la certezza di aver agito bene, in onestà, sincerità, pienamente leali e senza alcun margine d’ambiguità: non era questo sufficiente per mantenerci stabili anche di fronte a vicende avverse? E se anche le cose non sono andate come noi avremmo voluto, anche se siamo stati “sconfitti” fino all’umiliazione, non vediamo oggi che queste vicende ci hanno aperto altre prospettive?
Questa è un’evidenza che non ha bisogno di dimostrazioni, piuttosto la domanda è su quale sia il nostro dharma e chi può dirci qualcosa a proposito.
Nella società in cui si muoveva Yudistira questo era compito del Guru, il quale si rifaceva a testi (shastra) che la storia con la esse maiuscola ha distillato nei millenni, chi praticava la disciplina contenuta in quei testi era degno di fiducia e da frequentare per adeguarsi al modello.
Ma oggi di chi ci possiamo fidare? Quali sono i modelli da seguire? A chi possiamo affidarci senza essere strumentalizzati?
Fate caso, le grandi tradizioni come quella cristiana, vedica ed anche filosofiche, tendenzialmente laiche come quella greca e latina, hanno molti punti convergenti con grandi maestri che ancora oggi noi assumiamo ad esempio. Il dharma sta lì, quello eterno, valido per tutti e quello personale che dobbiamo coltivare per non sentirci inadeguati come lo sono gran parte dei contemporanei, i quali sono piuttosto inclini a compensare che a guarire, incoraggiati da una cultura che come obiettivo e modello guarda verso il basso dei “beni e servizi”, e questo è tanto più paradossale se si pensa che mai come oggi la distanza tra le élites al potere e le masse sterminate di cittadini-sudditi è stata così stellare.
I maestri ci sono anche oggi, come gli shastra ed i saggi da prendere a modello, oggi non sono in primo piano e soprattutto ve ne sono parecchi improvvisati, dei quali è bene controllare se hanno le qualità di ascetismo, rinuncia e conoscenza (saggezza) necessarie, mai come oggi dobbiamo esercitare il discernimento. C’è molta confusione, ma c’è sempre stata e le persone si son sempre divise tra chi segue bovinamente il corso degli eventi e chi è disposto a sacrificare parte del suo tempo e della sua vita nell’impegno evolutivo per aiutare sé stesso e gli altri, disinteressatamente e senza vantaggi materiali. I primi Dante gli considera non vili, ma vilissimi e gli mette nella folta schiera degli ignavi, i secondi si preparino a soffrire, perché saranno sempre in guerra col mondo (secondo le parole di Gesù di Nazareth), ma se faranno le cose come si deve, conseguiranno il più alto tra i beni che né i ladri potranno rubare, né i tarli rosicchiare: quella felicità interiore che deriva dall’adesione al… Dharma.
Graziano Rinaldi