L’ultima volta che sono andato in Nepal ho notato che per le strade periferiche di Katmandu sfrecciavano potenti trattori colorati ed ho visto che sulla sgargiante carrozzeria era impresso il nome dell’eroe mahabharatiano “Arjuna”. Questo mi ha fatto riflettere su tante cose, tra le quali quanto sia profondamente radicata la mitologia dell’India classica. Del resto chi abbia resistito fino alla fine a qualche film prodotto a Boolliwood, che si tratti di un classico bianco e nero o di un più sgambettante film contemporaneo, si sarà reso conto che la trama è inequivocabilmente ispirata all’epica del Mahabharata. Probabilmente Arjuna, nell’immaginario collettivo indiano, è l’equivalente di Achille in quello occidentale, ma in India la tradizione occupa nella quotidianità del popolo uno spazio incommensurabilmente maggiore.
Per popolo intendo l’insieme degli abitanti di una nazione, senza distinzioni di nessun tipo, dal più raffinato degli eruditi al più rozzo degli umani: ricco o povero, sani o malati, sembra che non ci sia differenza nell’imprinting iniziale, il fatto di nascere in un certo contesto culturale “marca” in modo indelebile le persone.
Ovvio che ognuno “indossi” questa base comune secondo il proprio status.
Gli umani di tutte le civiltà si nutrono di una qualche mitologia e pare che per trovare un senso alla propria esistenza debbano aderire ad un mito di fondazione che preveda esseri umani speciali, semidei che chiameremo “eroi” e questo vale anche per i miti (o falsi miti) contemporanei.
I sei fratelli Pandava (ci metto anche Karna) sono figli di divinità che si congiungono con donne molto speciali ma mortali, al contrario di Achille che era figlio di una ninfa e di un umano, ma i protagonisti del Mahabharata, essendo tutti kshatria, ovvero potenti condottieri di eserciti, sono anch’essi tutti eroi. Lo stesso Duriodana, che nel poema incarna l’adharma, muore eroicamente affermando la sua generosità e splendore.
Gli eroi sono modelli di riferimento per noi comuni mortali e cambiano di epoca in epoca. Sarebbe interessante analizzare quali siano gli eroi della contemporaneità, ma questo è un discorso che ci porterebbe lontano. Qui mi interessa analizzare qual’è il modello “eroico” che ci trasmette il Mahabhata attraverso i 700 versi della Bhagavadgita.
O forse dovrei dire più precisamente: quale modello eroico può trasmettere all’uomo contemporaneo la lettura della Bhagavad gita?
Cosa significa, alla luce degli insegnamenti esoterici del Maestro, vivere una vita eroica?
In termini teorici la risposta, per chi ha ascoltato le lezioni di Marco Ferrini, potrebbe stare nel “trova te stesso”, in quel rendersi libero dai condizionamenti che è il trampolino di lancio verso la più alta spiritualità.
Ma nel concreto quotidiano, qual’è la prassi?
Come vive quotidianamente secondo la Bhagavad gita un umano figlio di umanissimi genitori che ha trasformato la propria vita in un’esistenza eroica?
Credo che ognuno di noi possa dare una risposta in base all’esperienza e all’elaborazione. Per come l’ho capito io mi pare che praticare gioiosamente, con profonda soddisfazione interiore anche se tra difficoltà di tutti i tipi, una vita semplice ed ispirata ai propri doveri, dove “non si mangia troppo né troppo poco, non si dorme troppo né troppo poco…”, regolando lucidamente e con compassione le funzioni vitali, gli impulsi della mente e dei genitali, della lingua e dello stomaco (come dice Krishna ad Arjuna), questo sia agire eroicamente.
Dico così perché gli eroi sono tali in quanto sono uomini e donne liberi e liberati anche se costretti in catene o condotti al patibolo. La loro gioia è contagiosa anche nelle condizioni più estreme e differisce dall’isteria perché deriva dalla libertà e non dalla confusione mentale.
Però non confondiamo e soprattutto non ci balocchiamo col comportamento eroico quotidiano in una ristretta visione borghese come ci propone la nostra cultura, qui non si tratta di stringere i denti e andare avanti, tantomeno di resistere fino a quando non ci verranno riconosciuti i nostri meriti (in questo Bollywood ha travisato il senso della tragedia mahabharatiana di Karna), l’interpretazione di Marco Ferrini propone una felicità qui e ora per il fatto stesso di aderire a questo modello, è la prassi, la disciplina, la sadana stessa che determina lo star bene con se stessi e, al contrario, è la non adesione a questa disciplina che disorienta e crea disagio psicologico.
Lo stare “come torre nel vento” proposto dal Maestro alla luce degli insegnamenti della Bhagavadgita non è ostinato fanatismo, esso deriva bensì da una solidità emotiva che trova le sue fondamenta in una conoscenza liberatoria, una sapienza distillata nei millenni da generazioni di illuminati. L’eroe quotidiano qui non è il conformista piccolo borghese com’è stato descritto da una certa letteratura occidentale vittimista e ideologizzata, ma colui che agisce in ogni momento con alta consapevolezza, che frequenta senza lamentarsi le numerose e necessarie ascesi, così come non fanatizza il proprio comportamento per un compiacimento narcisistico. Condurre una vita eroica secondo la Bhagavad gita così come l’ha interpretata Marco Ferrini nei suoi insegnamenti, mi pare sia un rimanere in sé anche quando la posizione risulta scomoda, senza per questo ideologizzarla.
E poi, ma non di minor valore, l’essere ispirati ed ispiranti, nel primo caso ci vuole disciplina e nel secondo … anche, delle volta è sufficiente abbandonare qualche brutta abitudine per realizzare questa felice combinazione, e non è detto che debba essere l’abbandono di una grande dipendenza come quella da sostanze stupefacenti, talvolta basta una diversa modalità della comunicazione verbale, purché sgorghi spontaneamente, e questo non è così a buon prezzo.
C’è un lungo, spesso doloroso percorso ad ostacoli che l’uomo deve superare per raggiungere la sua essenza, la vera libertà di cui parla la Bhagavad gita, in questo consiste la metafora del campo di battaglia di Kurukshetra, gli umani devono dedicare a questo esercizio l’intera vita, come fanno i più brillanti guerrieri delle due parti in conflitto, il loro scopo è combattere e combattere bene, non gl’importa neanche di vincere o di perdere, è il combattere in sé che dà senso alla loro vita. Così per noi umani contemporanei come per i guerrieri del Mahabharata, la soddisfazione interiore più grande è nell’agire coerentemente nel mondo qui e ora. Prima di morire Duriodana, il “cattivo” del Mahabharata, afferma di aver studiato i Veda e di essere stato sempre magnanimo, rimproverando ai cinque fratelli Pandava, e quindi anche a Krishna, di aver vinto i suoi tre più potenti guerrieri con l’inganno e di essere stato lui e non i Pandava a comprendere la grandezza di Karna, il figlio di Surya, deva del sole. Ognuno ha il proprio karma, che noi occidentali chiamiamo con più familiarità “destino” o inconscio o qualcosa che sta tra il non tempo e il non spazio ma che pure determina il nostro tempo e i nostri spazi, e ognuno ha la piena libertà di giocarselo come crede, anche se questo è per noi difficile da comprendere, e più ancora ci appaiono incomprensibili certe parti che dobbiamo rappresentare nel teatro della vita, misterioso è infine il filo che lega tutto questo, forse conosciuto solod a coloro che hanno il completo dominio su forze che invece a noi comuni mortali continuano a dominarci.
Il bello della lezione del Maestro è che ci ha rappresentato tutto questo, ora mi rendo conto, con la stessa pedagogia che usa Krishna con Arjuna, ovvero come qualcosa di molto difficile ed impegnativo, che può scoraggiare tanto è alta l’asticella da saltare, ma altrettanto affascinante e possibile se solo facciamo i primi tre passi nella giusta direzione… poi quante vite ci vorranno dipenderà da noi e questo non ci impedirà di godere la meraviglia del creato.
Anche in questo caso di un paradosso si tratta: l’essere consapevoli al contempo della propria fragilità e grandezza insieme.