Seminario d’autunno, pochi giorni di grande intensità, affrontati i primi 22 shloka dell’ultimo capitolo della Bhagavad Gita. Il bello di queste esperienze è che risultano sempre diverse da come te le immagini. Infatti, come aveva annunciato Prabhupada nel suo commentario, pensavo si trattasse di un riassunto finale dei capitoli precedenti, invece si tratta di un materiale ad alta densità e molto impegnativo. Marco Ferrini ha proceduto con molta cautela nel commento, sapendo probabilmente che si stanno toccando degli argomenti che provengono da uno sfondo storico ed antropologico così differente da quello attuale da rendere necessaria una complessa “decompressione” prima di salire a questi concetti. A mio modo di vedere in questo consiste lo spessore del Maestro: rendere accessibile ad un pubblico eterogeneo e sempre meno propenso alla conoscenza esoterica, una conoscenza per la quale sono necessari “enzimi” assimilativi che non noi non possediamo più. E’ vero che la Bhagavad Gita ci restituisce una conoscenza universale, la stessa filosofia perenne che troviamo in altre civiltà, e lo fa con un’eleganza e una scienza magistrali, ma proviene da un ambiente culturale che ci è completamente estraneo, dove le categorie di riferimento sono diverse, talvolta opposte. Abbiamo voglia a cercare la traduzione precisa dal sanscrito quando per esempio parliamo di sacrificio, di rinuncia, di dharma o di karma, noi non possiamo entrare fino in fondo a queste idee perché non sono quelle in cui siamo nati e cresciuti. Se volessimo caratterizzare la nostra civiltà a nessuno credo verrebbe in mente di usare la categoria del sacrificio, ma semmai dell’edonismo, non quella della rinuncia ma del denaro.
Queste difficoltà però non spaventano Marco Ferrini. Egli spiega che c’è una funzione trascendente in ogni essere umano e questa permette la metanoia, il ribaltamento della visione, ma non nei termini di: “ora ho capito!”, bensì di: “ora sono differente”. E’ l’accesso ad una dimensione ulteriore che apre la visione. Credo sia questo che cerchi di insegnarci il Maestro. Impresa apparentemente disperata, ma possibile in quanto vediamo che pur raramente, ma succede.
Il bello e l’utile della Bhagavad Gita così come ce la sta insegnando il Maestro, è che non si limita ad enunciare i principi del dharma o i meccanismi del karma, piuttosto è un breviario molto accurato e direi scientifico per agire nel mondo e, proprio attraverso l’azione, liberasi. Sembrerebbe un paradosso: ma se l’azione è all’origine del karma come ci si può liberare dal karma con l’azione? Io non oso parlare di questo perché non ne sono all’altezza e perché non c’è una formula tipo abyasa+vairagghia=moksha, posso affermare solo che la Bhagavad Gita commentata da Marco Ferrini offre una conoscenza dell’agire e sull’agire che a piccole dosi entra nei collegamenti neuronali, che sono miliardi, e li modifica: l’agire nel modo giusto perfeziona l’azione che a sua volta costruisce la visone, ma per questo serve la conoscenza, quella che per l’appunto si trova nella Bhagavad Gita e in altri testi che in questa tradizione vengono chiamati Shastra. Gli shastra insieme a chi li pratica (sadu) e a chi li insegna (guru) sono la luce che illumina il nostro cammino verso la metanoia: come quelle immagini olografiche che secondo l’angolo visuale cambiano soggetto, così ciò che appare facile si rivelerà estremamente difficoltoso e ciò che sembrava irraggiungibile si presenterà quasi improvvisamente a portata di mano. Se ci concentriamo, anche senza entrare in meditazione, possiamo capire che questa fede è parte di noi tutti ed è consolatorio sapere che stiamo viaggiando insieme a qualcuno che è capace di non farci morire dissanguati a causa di un taglio, ci permette di recuperare le forze quando non ne possiamo più, organizza i miliardi di filamenti del nostro impianto neuronale come gli infiniti labirinti del nostro corpo e quelli ancora più numerosi della mente, qualcuno che è così intelligente da agire sempre in modo perfetto perché è esso stesso perfezione, senza nessuna invadenza, che ci chiama per darci la felicità mentre noi la cerchiamo da un’altra parte, lasciandoci però liberi di scegliere senza giudicarci, quel daivam che nel verso 14 la Bhagavad Gita ci dice far parte di noi come il corpo, l’anima, i sensi e gli sforzi che facciamo per organizzare tutta questa meravigliosa complessità. Questo e molto altro è per me la Bhagavd Gita nel commento di Marco Ferrini.