(Quinta lezione di Marco Ferrini al seminario invernale Isola d’Elba 2010)
Nella vita degli umani accadono fatti che possono predisporre o addirittura costringere a cambiamenti di prospettiva esistenziale.
Ma cos’è che permette di trasformare una convinzione profonda, uno stile di vita?
Negli shloka 8,9 e 10 del cap. VIII esaminati in questa lezione da Matsyavatara (nome iniziatico di Marco Ferrini) possiamo trovare una risposta plausibile e scientificamente verificabile: “abhyasa”, la capacità di rimanere “costantemente” nella disciplina (sadana). E’ la costanza nella disciplina, si dice, che mantiene la mente fissa sull’obiettivo, è la pratica assidua e costante che permette di “cambiare” acquisendo fede in ciò che prima era solo un’ipotesi di lavoro. Ho detto verificabile empiricamente perché ad un osservatore attento non sfuggirà che qualunque risultato di un certo rilievo è possibile solo con la dedizione, attitudine mentale che determina un’identificazione con ciò che viene ricercato. Questo processo psicologico che determina la peculiarità, o il conformismo, di ogni individuo, avviene in tutti gli ambiti della vita e della società, in tutti i tempi e vorrei azzardare: che caratterizza anche le altre creature.
In questi versi Matsyavatara ritrova il bandolo della matassa, il metodo pratico che concretamente fonda la scienza della ricerca spirituale, metodo che non è affatto diverso da quello delle altre attività umane se non nell’obiettivo che si prefigge. L’obiettivo è quello di rimanere collegati ad una visione che riconduce la realtà, tutta la realtà, ad un centro unificatore, “rilegando” ciò che appare scollegato, per ritrovare il significato originario della parola “religione”, da religere, rilegare appunto. Niente di misterioso o di arcano, in tre versi c’è la sintetica esposizione di un metodo e un programma di lavoro per chi vuol conoscere sé stesso, nella sua parte più profonda ed autentica. Se l’individuo desidera (il desiderio è componente fondamentale in questo processo) passare dallo stimolo iniziale ad un efficace lavoro per cambiare la sua forma mentis, deve seguire “con assiduità” una disciplina. La Bhagavad Gita spiega la disciplina per collegarsi con lo Spirito Supremo, Brahman; se invece si vuol diventare un pianista bisogna esercitarsi costantemente ed assiduamente studiando la musica e a far scorrere le mani sulla tastiera del piano. Le due cose non sono in contraddizione! Ma la particolarità della disciplina per chi vuole accedere alla dimensione spirituale dell’essere, consiste nell’ascoltare e parlare “con costanza e assiduità” del sacro.
Col tempo, con una compagnia coerente con gli obiettivi prefissati e con gli insegnamenti di un maestro, la mente si configurerà (mi piace immaginare proprio delle modificazioni nei collegamenti tra i neuroni) in modo tale che ogni aspetto dell’esistenza sarà visto ed interpretato con la lente del sacro che in questo contesto è da intendere non come l’adesione ad una confessione religiosa, ma nel senso proprio del termine di “appartenente alla Divinità”, ovvero restituendo unità e valore a ciò che apparentemente si presenta frammentato e profano. In quest’ottica i desideri, i pensieri e le azioni si trasformeranno alla luce di una rispettosa consapevolezza della sacralità del mondo; così ogni mancanza di rispetto o violenza nei confronti delle creature e del creato sarà avvertita come sacrilegio, ossia come una violazione che offende un ordine di cui siamo parte, una “profanazione” appunto.
Il messaggio è allo stesso tempo semplice e grandioso e ci spiega che il mondo della materia non è “apparenza” (maya) solo per il suo incessante trasformarsi, lo è anche perchè la sua interpretazione dipende dalla forma mentis con cui è percepito, o meglio, distorto dal filtro mentale. Abhyasa nel sacro consente di rendere la mente in grado di percepire la grandezza del mondo, di riconnetterlo alla fonte e di riconnettere noi stessi alla nostra natura originaria.
Per quanto determinati, questo sentiero non lo si può percorrere da soli, ma seguendo i passi di qualcuno che nella propria vita abbia realizzato l’esperienza del sacro di cui stiamo parlando. Nel testo esaminato è Dio stesso che spiega al suo caro discepolo Arjuna, nella tradizione non c’era bisogno di precisare che questa esperienza non si può fare “per corrispondenza”.
Graziano Rinaldi
Fede che pensa, fede che agisce, fede che ama.
di Marco Ferrini
Appunti direttamente dalla lezione a cura di Graziano Rinaldi
02 gennaio mattina
Quinta lezione di Marco Ferrini
Cap. VIII, 8. Abyasa, mantenere la disciplina spirituale in modo continuativo, all’inizio può risultare di qualche difficoltà, ma una volta raggiunto lo standard di consapevolezza il mantenimento è abbastanza facile se non si commettono errori. Due investimenti: raggiungere un certo livello di consapevolezza, che tutte le creature dipendono dal Supremo, che hanno il loro fondamento nel Supremo, fare uno sforzo per vedere il comune denominatore di tutte le creature, quando invece la visione è frammentata la coscienza è frammentata, quando si spezza il collegamento col proprio centro immediatamente inizia l’alienazione. Abyasa non è qualcosa in più è come il respiro. Noi pensiamo che si possa vivere anche separati da Dio nelle “gioie” dell’immanenza, ma rimane quel vuoto dentro, anche quando il bisogno impellente è soddisfatto resta quella mancanza di senso, non c’è la pienezza e uno ci può mettere dentro tutti i libri, le gite in barca, gli amanti, ecc. che vuole, perché l’anima ha bisogno della sua relazione d’amore con Dio. A ciò provvede la bhakti, la scienza di ricentrare il jiva in Dio, nel suo centro.
Mentre l’importanza della salute la si sente quando è compromessa, la carenza della presenza di Dio la sentiamo quando si diventa coscienti di Dio.
Acyntya beda abeda tattva è la formula per capire abyasa. Acyntya significa che non si può concettualizzare Dio, la morte, l’amore, tutte le volte che ci proviamo le riduciamo alla nostra dimensione, per tenerle al loro piano occorre abyasa, occorre un investimento. Beda abeda differente (non identica) e non differente. Dio è differente dal Mondo e allo stesso tempo non lo è. Mondo come opera di Dio, non come oggetto per goderselo egoisticamente: il mondo è così com’è ma magicamente prende un aspetto piuttosto che un altro secondo come noi lo osserviamo. Riflettiamo su questo perché è qualcosa di immenso, lo capiscono però più facilmente i bambini. Perfino un lupo famelico guardato nella maniera giusta, abbandona la sua aggressività. Patanjali dice che chi si è completamente fondato su ahimsa, quando uno non ha più nessuna ostilità nei confronti di chicchessia, l’ostilità cessa. Attraverso abyasa possiamo trasformare un rapporto perdente in un rapporto vincente, una giornata grigia in una luminosa.
Attraverso il collegamento dello yoga con abyasa (abhyasa-yoga-yuktena), rimanere continuamente connessi con Dio attraverso la disciplina, poi potremo rimanervi anche senza disciplina, spontaneamente, senza sapere che “siamo diventati” la disciplina. In questa condizione la mente non scappa più. Attraverso la pratica costante la mente si pone dove deve essere ovvero centrata nel suo baricentro: Dio. Quando la mente ha cessato le sue scorribande, il delirio, le fantasie contaminanti, come fossero gli effetti di una droga o un’infezione, allora l’essere vive in Dio, lo raggiungere, ma serve abhyasa-yoga-yuktena.
9. Questo mondo senza la consapevolezza spirituale è solo morte, senza la coscienza illuminata questo mondo è buio. Qualsiasi cosa è di passaggio, solo uno stolto può distrarsi dalla soluzione, una persona che invece vuole vivere pienamente ed eternamente gli stati di bellezza, deve collegarsi al principio che è immortale e che rappresenta la sostanza di tutto, questo collegamento ci permette di rimanere in contatto con ciò che è conosciuto come più bello dall’esperienza estetica, fuori da questo contesto ogni cosa perde, anche la cosa più bella scade come un prodotto scaduto. Quel che ci piace ha il suo fondamento in Dio, se invece di parlarne in modo impersonale di Dio ne parliamo come di ciò che ci affascina, quello è Dio, ma nella sua somma rappresenta la persona che tutte quelle glorie possiede: Bhagavan, colui che possiede tutte le glorie.
10. “Con mente che non devia”, è un motivo che ritorna continuamente. La mente è quella che ci prepara tutti gli scenari. Le diverse forme mentis guardano il mondo in modo diverso, non è la massa cerebrale, non è una differenza nella chimica cerebrale che determina i santi e i briganti, è la mente che fa la differenza, la quale non c’entra niente con l’aspetto chimico fisico.
Se vogliamo predisporci a vedere le cose nel loro vero aspetto dobbiamo essere educati altrimenti la psiche ci infila in un vicolo da cui non ne usciamo, dobbiamo essere educati da guru, shastra e sadu. Gli shastra ci dicono come fare, ma dobbiamo vedere qualcuno che vive queste realtà, questo dà l’ispirazione per vivere questo processo che poi va portato avanti. E’ come in una cordata, bisogna concentrarsi al massimo grado perché ogni distrazione ci può essere una caduta di coscienza. Occorre una mente robusta, ferma, chi si distrae cade, nelle cordate e nell’ascesa verso il brahman.
La memoria non è qualcosa che ci è dovuto, così come ce l’abbiamo, quando il livello di coscienza si abbassa, possiamo anche perderla. Non è così semplice “immergersi nel ricordo del Signore Supremo con mente che non devia”. E’ abyasa che permette di rimanere collegati ad un livello superiore. Ma non va considerata mai un’acquisizione per sempre, escludendo il liberato in vita che ormai non può più rientrare in maya.
La migliore forma di abyasa è ascoltare e parlare di sacro.
Quando gli ostacoli sono stati distrutti non c’è più distanza/differenza tra noi e il nostro centro, arriviamo al punto che quel che diciamo è il più alto modo in cui possiamo dirlo, allora la bhakti diventa naistiki, ininterrotta, perché gli ostacoli sono stati distrutti.
Bisogna mantenersi in uno stato d’animo elevato perché anche le analisi più rigorose e precise se non hanno un approccio elevato trarranno conclusioni completamente sbagliate. Attenzione a contemplare il degrado perchè c’è il rischio di diventare noi stessi il degrado/deviazione, “contemplando l’abisso ci si può cadere”, noi dobbiamo essere in grado in grado di vedere l’empietà, brutture, ingiustizie, ma la risposta del bhakta è diverso da quello di chi fa analisi precise con premesse sbagliate. E’ abyasa che ci permette questa visione alta. Bisogna praticarla però 24 ore al giorno, senza preoccuparci se arriva qualche asura: la potenza spirituale ha una potenza di trasformazione in cui tutti gli ostacoli crollano, attraverso la pratica costante vengono distrutti tutti gli ostacoli. E’ questa la buona novella, il messaggio di speranza, è metodo, esperienza che si concretizza nella vita e nella stessa misura in cui viene concretizzato lo può donare agli altri, bisogna parlare di quello che ci è già successo, sarà meraviglioso, gli altri sono spiritualmente uguali, sono differenti i loro condizionamenti.
La visione toglie ogni peso, se la visione è da una parte e la pratica è da un’altra, si crea una stonatura, la disciplina è tutt’uno con lo stile di vita e non pesa più, a un certo punto diventa impossibile vivere in altro modo. Anche se non c’è più fatica nell’essere disciplinati e distaccati, risiedere in un corpo materiale che si sgretola sotto gli effetti del tempo può creare difficoltà temporanee.
Domande
Atman non nato? Siamo o no figli di Dio?
Kata Upanishad: come una candela che ne accende altre. Non è una nascita di tipo fisiologico, l’anima non nasce significa che ha un’ontologia diversa da quella del corpo, i corpi nascono, non l’anima. Il fatto che abbiamo il centro in Dio non significa che il cerchio è nato dal centro, sappiamo che non esiste cerchio senza centro né centro senza cerchio, ma non si può dire cosa sia nato prima. Sono metafore per farci capire che noi e Dio siamo della stessa sostanza ed eterni. Siamo tutti dentro al campo della realtà, il cui centro è Dio. Noi abbiamo ceduto la nostra identità originaria al corpo, il quale è destinato a morire, facendo un pessimo affare e per questo c’è la paura della morte. Ma quel che è innato è immortale, Krishna dice questo ad Arjuna. Noi dobbiamo arrivare preparati al momento della morte, compresi eventuali scivoloni, ma chi mantiene la marcia dev’essere considerato una persona saggia. Dobbiamo osservare non se uno cade ma se si rialza prontamente.
Sullo shloka 7.30.
Da cosa viene la comprensione al momento della morte per ricevere Dio all’ultimo momento?
Il rapporto tra il jiva e l’anima suprema è a livello spirituale, tutti i parametri che servono nel mondo materiale cadono sul piano spirituale. Mentre qua una persona può essere profondamente debitrice, malvagia, corrotta, sul piano spirituale è pura, intatta, bisogna sempre ricordarlo sempre. Se questa sua luce viene toccata dalla luce del Supremo anche al momento della morte, allora il processo può avvenire anche in un attimo, non c’è bisogno di tutti i processi, corsi e ricorsi di cui c’è bisogno in vita. Ma attenzione è molto pericoloso contare su un risveglio spirituale al momento della morte, perché in quel momento sono gli interessi coltivati in vita che accompagneranno il jiva nell’ultimo istante di vita! La scintilla può produrre dubbi che pur sono sorti nel corso della vita, ma di cui le persone si sono disinteressate per la prevalenza di altri interessi, nel momento della morte possono avere una fiammata: Krishna è Dio di grazia e misericordia, Dio non è per l’amnistia, essa non educa alla vita, bisogna educare le persone e per educare veramente bisogna servire.
Sul karma di Cristo
Il termine karma va inteso in senso molto più complesso del comune parlare. Certi devoti del Signore non sono soggetti al karma, quel che a loro accade è perché Dio ha stabilito che quello è il suo modo di intervenire nel mondo e certe persone a Lui particolarmente care vengo incaricate di sostenere missioni che non possono essere affidate ad altri, e per questo Dio gli dà potenze speciali. Dio interviene nel mondo, non dimentichiamocelo.
Il presentimento di Cristo prima dell’arresto e altre difficoltà registrate nei Vangeli come l’invocazione sulla croce, da questo dialogo gli uomini sono tagliati fuori è un rapporto tra Lui e Dio, ben lontano dal dipendere dal giudizio degli uomini.