01. Una conoscenza esoterica per l’uomo contemporaneo.
Nella prima lezione del primo seminario introduttivo alla Bhagavad Gita, Marco Ferrini (Matsya Avatara) afferma l’attualità e soprattutto la necessità di questo antico sapere per l’uomo contemporaneo.
Primo punto per non fraintendere quanto verrà detto è che la conoscenza trasmessa dal testo attraverso l’insegnamento di un maestro appartenente alla Tradizione, è l’unica in grado di svelare l’aspetto esoterico dell’opera, di attivarne la potenza trasformatrice nella coscienza individuale; che altrimenti sarebbe erudizione, conoscenza teorica e non realizzata. La comprensione della BG è legata dunque ad una precisa modalità ambientale-emotiva sia da parte di chi trasmette sia di chi riceve, presuppone cioè una predisposizione che prevede l’intervento di ciò che potremmo chiamare in termini teologici “misericordia”, o, se vogliamo rimanere nell’ambito psicologico, al transfert tra maestro e discepolo, quel passaggio alchemico (K.G. Jung) necessario per trasformare la materia pesante in energia sottile. E’ infatti all’interno di questa disposizione dell’animo che possiamo partecipare al “gioco” (lila in sanscrito) che permette il perpetuarsi del sapere sacro. Stiamo parlando di sapere sacro e non di semplice conoscenza delle cose del mondo, sebbene ciò che indaghiamo siano proprio le cose del mondo, ma le usiamo per portarle ad un livello diverso da quello a cui siamo abituati a sperimentarle normalmente: il sapere sacro è qui inteso come la reintegrazione del quotidiano in un’armonia (ritam) che lo trascende e lo ricollega ad un ordine cosmico di cui ogni particella di questo universo è parte. Ovvio che in questo lavoro la ragione ha l’ali corte (D. Alighieri).
Da quanto detto ricaviamo che non è una conoscenza per tutti, ma allo stesso tempo è ciò di cui l’uomo contemporaneo ha più bisogno: ritrovare il senso del sacro per ricollegarsi alla sua vera, intima natura, ciò che Marco Ferrini chiama “ricontestualizzazione dell’uomo nell’universo”, il sensum dell’esistenza.
Il Canto del glorioso Signore ci spiega “il campo e il conoscitore del campo” e allo stesso tempo ci dice anche come si raggiunge l’obiettivo di coniugare i due poli tra i quali si muove la creatura umana: creato e Creatore.
Graziano Rinaldi
Divinità, umanità e natura.
di Marco Ferrini
Appunti direttamente dalla lezione a cura di Graziano Rinaldi
Prima lezione
01 aprile 2010 pomeriggio
Da molti decenni Marco Ferrini ricerca i contenuti profondi della Bhagavad Gita. Con questa lezione partirà una serie di seminari che rappresentano l’ennesimo lavoro sullo stesso tema. L’autore pensa che questo sapere sacro abbia molto da dire anche all’uomo contemporaneo e il suo scopo è renderne il raggio di circolazione più ampio.
Questa volta il taglio che il Maestro ha intenzione di dare allo studio della BG proviene dal bisogno di condividere con gli altri le sue realizzazioni, le intuizioni dei nessi tra i fenomeni, dall’aver gustato un sapore così dolce, dopo aver capito ciò che sta dietro a certe apparenze. Ma è consapevole che dobbiamo parlarne con persone che siano già in viaggio, che sono già immerse nella ricerca.
Il tema di questo seminario è Divinità, umanità e natura nella Bhagavad Gita. Antropologia di una civiltà. A noi infatti interessa l’antropos, l’uomo che gioisce, che piange, perseguitato dalla sofferenza, dall’impotenza, che ha fortuna: l’uomo è un diamante dalle infinite sfaccettature, ecco perché “antropologia” di una civiltà. Non ci interessa un lavoro accademico, teorico, che pure sono importanti, ma se la conoscenza non viene esperita, calata nella realtà con il nostro collaudo, non diventa mai sapienza, e allora resta un nozionismo che non risolve i problemi dell’uomo, che non modifica le emozioni, l’umore, il temperamento, non riesce a fare dell’uomo la migliore versione di sé stesso. Bisogna superare rapidamente il sapere intellettualistico fatto di schemi e formule che altro non è che il lume di una candela, quando, per un sapere intuito1, sappiamo che ci aspetta la luce di un sole, e qualche volta abbiamo sperimentato il suo bagliore e allora non ci basta più la debole luce di una candela! Anche se noi ci riferiremo alla civiltà indo-vedica, ci sono dei passaggi chiave che sono dei comuni denominatori di tutte quelle che possono essere chiamate civiltà, tradizioni che attengono al mondo interiore.
Lettura da Psicologia della BG… pag. 7.
Per trasformare la nostra vita bisogna “sentire” che siamo collegati col macrocosmo, a tutte quelle energie cosmiche che ci traversano continuamente e ci influenzano nella capacità di sentire, di capire, di esperire, di esprimere emozioni, perfino di metabolizzare il cibo, di dormire o di soffrire d’insonnia, questo macrocosmo è tutt’uno col microcosmo che sono i nostri corpi e questi microcosmi sono tutti in rete, collegati col loro sistema di riferimento che è il macrocosmo. Immaginarci separati dal macrocosmo e soprattutto non sentire la nostra collocazione nell’universo, è una perdita di senso, un appiattimento sui livelli più bassi della coscienza. Questo è uno dei problemi più gravi dei contemporanei, perché se non c’è questo “sentire”, nel senso di avere anche
un’onda emozionale che fa sentire in contatto… è questo contatto che determina l’ecologia, le buone relazioni, e trasforma la nostra vita. Da qui nasce la ricontestualizzazione2 dell’uomo nell’universo.
Quando guardiamo al mondo abbiamo l’esperienza dell’immanenza di Dio, quando invece noi cerchiamo Dio dietro alle apparenze facciamo un lavoro di trascendenza. Immanenza e trascendenza sono parti di Dio ma noi dobbiamo imparare a distinguerle, altrimenti rimaniamo irretiti nell’immanenza e si blocca il viaggio verso la trascendenza.
Qual’è il contributo della Bg all’uomo del III millennio?
C’è da prendere in considerazione l’ambivalenza dell’essere umano, il suo oscillare tra la luce e le tenebre, azione e non azione, gioia e dolore, speranza e delusione, amicizia e odio: queste sono le tipiche dualità umane, dell’uomo in quanto incarnato e quindi condizionato, l’obiettivo è trovare l’equilibrio superiore nel caleidoscopio delle cose del mondo, l’equilibrio dinamico tra gli opposti proposto dal taoismo.
E’ la grazia divina3 che fortifica le penne per il volo verso la trascendenza. Ma cos’è la divinità, chi è, come si manifesta, ha un nome, ha una forma, cos’ha a che vedere col tempo? Dio nasce all’interno della storia pur essendo l’anima mundi?
La Divinità è l’essenza senza la quale il mondo si disintegra, è nel mondo ma trascende il mondo, crea e sostiene il mondo, ma non è dal mondo circoscritto; noi umani siamo circoscritti dal mondo poiché la coscienza si è costruita tutta nel mondo e non può prescindere dal mondo, bisogna aiutare le persone a sentirsi nel mondo senza sentirsi “inscritti” nel mondo, sentirsi nel mondo ma sentirsi trascendenti rispetto al mondo4: questo è uno degli scopi fondamentali della BG. Nel mondo l’uomo crede di potersi appagare col possesso e col godimento di frammenti di mondo come moglie, figli, genitori, la casa, la bandiera, il colore della pelle, la forma del corpo, esse sono tutte schegge di mondo, ma nessuna di queste schegge né tutte assieme possono dare la felicità: la felicità è un quid che trascende la prakriti, perché la Natura non può produrre nessuna felicità, noi per felicità intendiamo una continuità di quello stato di beatitudine che non dipende da cose esterne a noi, dal mondo; il mondo produce il piacere ma il piacere è una scarica elettrica in cui i sensi e gli oggetti s’incontrano impropriamente(!?ndt) e producono un effetto illusorio, un miraggio di felicità, un piacere così caduco che insistendo si trasforma in sofferenza: tutto se prolungato si trasforma in un’insopportabile sofferenza. Il metodo sarà lo yoga: come trascendere il mondo stando nel mondo, utilizzando appieno il mondo, ma con l’agire distaccato in spirito di offerta. L’avere è una cosa, il possedere che implica senso di possesso è ciò che ci allontana dal piacere di avere senza possesso: è una lezione difficilissima, durissima, non ci si fa con qualche anno di ascesi, è un percorso accidentato con tratti piacevolissimi e affascinanti ma a volte si presenta con delle prove durissime; è un viaggio verso un luogo sconosciuto perché se già lo conoscessimo non saremmo qui, ci viene descritto da chi anche in parte ha già fatto questo viaggio e ci è comprovato dalle scritture sacre.
C’è la necessità di collocarsi da qualche parte, ma dovunque ci collochiamo troviamo diversi tipi di problemi, conflitti da armonizzare, difficoltà. Nessun percorso è privo di ostacoli, perché senza ostacoli non si progredisce, non si cresce: non si salgono i gradini della scala evolutiva senza superare le prove5. Un conto la conoscenza sul piano teorico e un conto è applicarla nella pratica, diventare abili, umili, correggersi tutte le volte che sbagliamo, perché gli errori sono importanti; chi vede il mondo in questo modo, colui che ha una prospettiva evolutiva, impara anche dagli errori altrui: abbiamo da imparare a ogni passo!
Ma perché non ci occupiamo solo dell’antropos? Perché non ci occupiamo solo delle cose che riguardano l’uomo? Perché l’uomo non può essere felice se si occupa solo dello stato “umano”, l’uomo deve realizzare la sua matrice divina per mantenersi ispirato ed appagato.
Nella sfera antropologica dobbiamo comprendere non solo la fisicità e l’emozionalità, ma anche la spiritualità, altrimenti avremo un uomo a metà, perché quell’insieme di molecole che compongono quella persona fisica non sta insieme un attimo di più quando la vera persona, il vero protagonista della ricerca, se ne va dal corpo umano. L’antropologia deve naturalmente sfociare nella teologia, perché senza realizzazione spirituale alla prima crisi siamo spazzati via con una triste esplosione, è indispensabile che nell’antropos facciamo un lavoro per arrivare al suo baricentro che è di natura spirituale, senza dimenticare la natura che si manifesta con l’acqua, il sole, le emozioni, il corpo che si manifesta nella giovinezza e nella vecchiaia, le persone che non arrivano a questo centro della persona si squinternano come libri sfasciati. Quindi l’antropos al centro, perché l’uomo ha da una parte il mondo, la Natura e dall’altra questa sua istanza divina che lo spinge sempre verso l’alto, altrimenti non esisterebbe la ricerca estetica, artistica, è la scintilla divina che sospinge verso la libertà, la giustizia, la Felicità e verso l’amore.
Libere note di Graziano Rinaldi
- La “conoscenza/sapienza” è intesa come vidya. Diversa dalla conoscenza analitica come la s’intende in occidente. Vidya presuppone anche la conoscenza del campo, cioè della natura, ma non è sapienza fino a quando non arriva alla conoscenza del conoscitore del campo, e per questo salto qualitativo è necessario qualcosa di diverso e di più profondo dell’intelligenza e della ragione: bisogna mettere in campo la funzione trascendente di cui si parla anche in occidente, la quale è intuito in quanto non dipende dai processi razionali, ma non arriva fortuitamente, bensì abbisogna di concentrazione e meditazione, in modo diverso secondo le diverse visioni (darshana).
- Le upanishad parlano proprio di questo, del brahman e dell’atman e del loro collegamento. Nel I canto del Paradiso leggiamo: Qui veggion l’alte creature l’orma de l’etterno valore, il qual è fine, al quale è fatta la toccata norma. Il mondo è una rappresentazione della magnificenza divina, il collegamento (buddhy Yukta) permette di vederla, il mondo, dice il Poeta, è fatto per conoscere Dio, o meglio, per ri-trovarLo, attraverso la sua impronta nell’universo dell’immanenza. A questo si riferiva Francesco nel suo Cantico di frate sole. Sarebbe interessante analizzare le tappe attraverso le quali la civiltà contemporanea è approdata ad un sapere altamente frammentato che infine ha separato l’individuo dal cosmo.
- Sembra che il M. ci dica che la cultura, le ascesi, le opere, non sono sufficienti se non interviene la grazia divina. Come dire che bisogna fare tutto quello che è nelle nostre possibilità, ma anche così rimaniamo al di quà, per andare oltre deve intervenire il messo divino che apre le porte di Dite. Quando la ragione ha esaurito le sue potenzialità e c’è il desiderio di andare oltre, allora scatta quella parte di divino che è in noi e che evidentemente è collegata alla Matrice divina.
- Ovvero possedere la consapevolezza della caducità dell’immanente e della Realtà del trascendente.
- La vita terrena come valle di lacrime? Sembra che su questo punto concordino molte tradizioni. La vita incarnata come Purgatorio nel quale espiare i propri debiti karmici? E’ pur vero che gli espianti dei gironi danteschi, pur essendo afflitti da severissime pene, sono lieti e persino gioiosi, poiché hanno intravisto e hanno la certezza di quella luce di cui il M. ha parlato all’inizio. Se la vita terrena è il nostro Purgatorio allora deve essere vissuta con la gioia di chi è in cammino verso la luce! Sembra questo il messaggio e la funzione del karma.