Sogno di una mattina di quasi inverno.

marco ferrini a montecristo

Ieri sera ho assistito via TV a canti devozionali eseguiti da musicisti e cantanti-devoti in presenza del loro maestro.
Stamattina, al risveglio, ho ricordato due sogni.
Nel primo mi recavo a trovare il maestro al quale erano dedicati i canti ascoltati la sera prima.  Vedevo tanta gente e udivo il clamore dei grandi raduni. Qualcuno mi ha accompagnato nel luogo dove avrei incontrato questo maestro: un’ampia pedana in un’atmosfera di pulizia e di luce, circondata da piante coltivate dentro a grandi vasi di terracotta.
Arrivato al suo cospetto, con sorpresa mi sono accorto che non si trattava della persona cercata: davanti a me stava infatti il mio maestro, Matzya Avatara das!
L’imbarazzo è durato poco, abbiamo subito  concordato sul fatto che ascoltare maestri diversi è utile solo se già ne segui uno con devozione, altrimenti può diventare un girovagare inconcludente. Conoscere altre visioni, sperimentare vie diverse di realizzazione spirituale, può arricchire o disgregare la coscienza, paradossalmente dipende ed è proporzionale alla forza che ti lega al tuo maestro.
Questo in sintesi, mi ispirava il colloquio onirico.
Un altro aspetto ho vissuto, o ascoltato, nello stesso sogno: il maestro in carne e ossa è un essere umano del quale puoi sperimentarne l’essenza spirituale tanto quanto ne comprendi la parte umana. Egli, il maestro, può avere idee sulle cose del mondo anche molto diverse dalle tue, comportamenti differenti da quelli che ti aspetti, talvolta enigmatici, ma come si rispetta con amore l’alterità di una persona cara, poiché ne conosci la limpida motivazione,  con lo stesso affetto ci si approccia all’umanità del maestro spirituale.
Questo non significa indulgere in un fideismo devozionale secondo il quale il maestro, qualunque cosa faccia o dica, debba essere accettato, gli antichi codici vedici raccomandano a questo proposito di tenere alto un sano spirito critico, anche nei confronti del proprio maestro, ma sempre a partire da un precedente esame di se stessi, tra ciò che si muove in superficie e quello che risiede nella profondità della propria psiche. Credo che l’altro sogno sia collegato a questa idea di responsabilità personale nella ricerca spirituale.
Stavo andando a trovare una persona con la quale ho una relazione d’affari. C’è tra noi una fiducia collaudata da molti anni di reciproca correttezza e rispetto, oltre che di accertata professionalità.
Il suo ufficio si trovava al termine di una bella scalinata in calcare rosa. Tra i gradini scorgo una grata di ferro, immagino servisse per ricevere e incanalare le acque piovane. Questa grata però, contrastando con l’eleganza del luogo, era stranamente rugginosa e malmessa, certamente pericolosa se vi avessi messo un piede sopra. Nel sogno ho facilmente individuato il pericolo e senza alcun disagio ho incontrato la persona.
Ripensando ai due sogni, ho collegato la grata rugginosa al pericolo di mettere un piede in fallo se non fai attenzione a “di cui tu ti fide”, come raccomanda nel V dell’Inferno Minosse a Dante riguardo a Virgilio.
Il maestro, ho pensato, è il tuo Virgilio, ti accompagna dove altri non potrebbero, ti apre gli occhi su ciò che ti farebbe sprofondare (l’inferno dantesco) e ti insegna come prendere il volo (il purgatorio della Commedia), il viaggio però lo farai con le tue ali, grazie all’anima (Beatrice) disciplinata e liberata proprio grazie all’amore che ti lega al maestro spirituale che a questo punto non è più Tizio o Caio, poiché hai introiettato lo “spirito” del maestro, che, se sei fortunato, continuerai a incontrare come persona, sempre ricordando che “persona” deriva dal latino “maschera dell’attore”.
Può darsi che questa mia interpretazione sia una razionalizzazione tutta intellettuale, ho deciso pertanto di rivelare qualcosa di più intimo che ritengo possa dare forza a quello che ho fin qui affermato.
Al risveglio, prima di ricordare i sogni, ho provato un senso di leggerezza che immediatamente si è indirizzato alla “persona” del mio maestro, verso il quale sentivo un’affettuosa gratitudine, intangibile da qualsiasi “grata arrugginita” che riguardasse la mia e la sua persona e che si estendeva a cerchi sempre più allargati di persone care, seppure non sempre in sintonia.
Graziano Rinaldi

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