Corde che legano, corde che salvano.

L’induismo è un monoteismo!
Yin e yang:
bianco e nero, giorno e notte, caldo e freddo, sud e nord, due polarità energetiche che secondo la filosofia cinese regolano la vita sulla terra.
Meno conosciuta è la trimurti indiana, dove la dualità si complica in trina, ma come diciamo che la dottrina trinitaria cristiana non ne inficia l’essenza monoteistica, così è quella indiana: rigoroso monoteismo ricchissimo di contenuti simbolici ed esoterici spesso fraintesi o volgarizzati.
Le tre divinità in questione, a cui, fatto rilevantissimo e poco esplorato, ne sono associate altrettante femminili, sono Brahma, Vishnu e Shiva, rispettivamente creatore, sostenitore e distruttore del ciclo della vita. Tralascio l’interessante mitologia collegata alle singole divinità, segnalo solo l’interesse di un intellettuale occidentale del primo novecento molto conosciuto tra i cultori dell’esoterismo e vedantista convertito al sufismo, René Guenon, affascinato dalla figura di Shiva il distruttore, molto vicina al crogiuolo alchemico nel quale la morte non è affatto scomparsa, ma vissuta come trasformazione e continuo rinnovamento.
L’aspetto che brevemente tratterò mi pare possa costituire un aggancio tra la filosofia indiana classica e quella occidentale, offrendo spunti per una migliore analisi e un aiuto per una concreta introspezione ai contemporanei di questa parte del mondo dove il sole tramonta.

Trinità dell’India classica.
          Mi riferisco ad un’altra tripartizione ancora meno nota della trimurti, quella dei guna. Nella filosofia classica indiana (samkhya), i tre guna rappresentano le energie o, più letterariamente, le tre corde che tengono la materia.
Perché proprio tre e non due come nel Tao?
Prima di proseguire un’informazione necessaria e rilevantissima per l’orecchio e la mente occidentale: quando parlavano di prakriti, ovvero di materia, gli antichi filosofi indiani non intendevano solo quel che comunemente noi occidentali intendiamo per “materia”, ovvero tutto ciò che è visibile e tangibile ai sensi, dobbiamo fare un passo oltre l’impostazione greca e includere nella materia (prakriti) anche la psiche!
Non appaia bizzarro, è del tutto comprensibile e funzionale all’insieme della dottrina della metempsicosi. E’ infatti evidente che, come suggerito anche da Platone nel mito di Er, ognuno nasce con caratteristiche proprie che gli derivano non solo e non tanto dal corpo ereditato attraverso i cromosomi dei genitori, ma dalle sue convinzioni profonde e dal comportamento che ognuno ha “liberamente” scelto nelle vite precedenti!

Tre Energie che legano o liberano.  
          Sul quanto possa essere libero l’arbitrio individuale, c’è da approfondire, per ora ci basti sapere che quando parliamo di guna come energie costituenti la “natura”, qui intendiamo sia la natura materiale che psichica di tutto ciò che costituisce l’universo, quindi non l’essere umano soltanto, non gli animali, le piante, le rocce, ma tutto quel che nell’universo trova residenza e pure coi suoi attributi psichici, perché anche i gatti hanno una propria psiche ed è facile notare che è diversa anche per ognuno di loro e poi, cosa ne sappiamo delle piante? E le forze chimico-fisiche che agiscono sulla materia inorganica?
I guna sono dunque le corde che “legano” la materia (fisica e psichica), conoscerli è la via maestra della conoscenza.
Non casuale che nel testo più studiato e tradotto della filosofia indiana, la Bhagavadgita, l’insegnamento conclusivo sia impartito proprio sulla base della dottrina dei guna.
I guna sono tre:
rajas ha a che vedere con la potenza creatrice ed è legato a Brahma;
tamas con l’entropia, il disfacimento dell’ordine complesso in una semplificazione silente, funzionale ad una nuova creazione, è legato a Shiva;
sattva col sostentamento e mantenimento dell’ordine vitale ed è legato a Vishnu.
Sul piano psichico rajas è assimilata alla spinta vitale che impone la sua necessità fino alla volontà di potenza di cui ha parlato la filosofia occidentale moderna almeno da Schopenhauer a Freud; all’opposto tamas rappresenta la disgregazione della volontà, la pulsione di morte citata da Freud nel 1920 in “al di là del principio del piacere”; ciò che armonizza le due pulsioni è invece sattva.

Istinto o Pulsione?
La cosmogonia di molte civiltà, compresa quella greca, è fondata su un’inconciliabile dualità che continua a manifestarsi in ogni particella del creato, essere umano compreso: sono le pulsioni con le quali ci dibattiamo da sempre, almeno da quando abbiamo  incominciato a ragionare su noi stessi, precedentemente si presuppone le subissimo come tutti gli altri viventi che ci accompagnano tutt’ora su questo pianeta.
La pulsione è vicina all’istinto, ma, a differenza di quest’ultimo, può essere più facilmente incanalata in attività polimorfe, tanto da far ritenere a molti filosofi e psicologi che l’essere umano, pur provando pulsioni, sia privo d’istinto.
E’ esperienza comune la fatica che fanno anche gli animali più evoluti a dominare i loro istinti, mentre sperimentiamo altrettanto frequentemente quanto creativo possa essere il flusso di eros a disposizione dell’essere umano. Se rajas è assimilabile a eros e tamas allo yang del Tao inteso come impulso alla preservazione e alla quiete rigeneratrice, l’alto e il basso del pendolo diventano così metafora della vita.

Nel Terzo la (possibile) libertà.   
Al di là delle intuizioni mitologiche e antropologiche, ci deve pur essere stato un momento nella storia della nostra specie, penso prima e oltre Homo sapiens, nel quale le conseguenze di questo oscillare dualistico abbiano acceso una luce di consapevolezza nella mente dei nostri antenati.
Gli umanisti del XV secolo la definivano scintilla divina: ragione, riflettere, nel senso di riflettersi nello specchio della propria mente. La ragione come strumento per costruire una polis civile, oltre la ferocia della volontà di potenza, né appiattita passivamente sulla sopravvivenza: la lotta titanica continua, ma la ragione può contenerne le conseguenze nefaste, sia a livello sociale che individuale.
La personalità ideale che dall’India classica ci tramanda la letteratura vedica, è un uomo col perfetto controllo su ciò che accade dentro e fuori di lui, imperturbabile ai fatti del mondo e alle emozioni che pure riconosce e amministra con azione perfetta e distaccata. Una perfezione ottenuta con la disciplina (sadana) e una fede incrollabile rispetto alla sua contestualizzazione nell’universo (dharma).
La perfezione vedica non prevede l’assenza di eros e thanatos, o rajas e tamas che dir si voglia, poiché non possiamo psicologicamente amputarci di queste spinte innate e necessarie, ma attraverso una riflessione interiore e un passaggio nel fuoco della disciplina, possiamo gestire produttivamente queste energie attraverso sattva.
Se le antiche mitologie ci trasmettono una perenne dialettica tra due forze contrapposte, la letteratura vedica propone una trinità nella quale la necessità delle due forze vitali è armonizzata da una terza energia apparentemente e forse effettivamente meno potente, ma dallo sviluppo della quale dipende la realizzazione dello scopo del nostro essere stati gettati nel mondo.
Per la persona religiosa, ovvero per chi abbia una finalità ultramondana, scopo della vita è tornare al sé, a Dio, questo con la sola ragione non è possibile, ce lo ha spiegato bene Dante quando ha dovuto fare il cambio di “guida” da Virgilio a Beatrice per poter salire in paradiso. Ma la ragione è lo strumento per utilizzare le forze vitali  in modo produttivo (razionale), è attraverso la ragione che facciamo le scelte, più o meno fallaci in misura della nostra capacità. Sattva è intelletto illuminato per la parte in cui non soggiace alle spinte di rajas e tamas che invece forniscono l’energia vitale e la sua rigenerazione. Senza questo fedele operaio che è la ragione, la nostra mente sarebbe travolta dalle potenze  di molto superiori della vita e della morte.
Quando parliamo di destino, dovremmo immaginarci la contemporanea azione di queste forze, dove ogni determinazione risiede nel divenire e nella responsabilità individuale.
Culture, luoghi e tempi profondamente diversi, hanno espresso comuni intuizioni che ci risvegliano a un’etica minima generata da una realtà che continuiamo a voler ignorare nonostante l’evidenza “scientifica”: tutto è uno e noi, ognuno di noi, ne fa parte, insieme a tutto quel che nell’universo respira e non respira.
Difficile parlare di amore, impossibile aspirare allo spirito, senza oltrepassare la membrana dell’io e mio.
Sattva predispone per ri-trovarci e una volta compiuto l’aggancio al sé, l’opacità pian piano si dissolve, così, senza nulla togliere alla drammaticità dell’esistenza umana, la vita scorre con l’inarrestabile potenza del fiume che torna all’oceano.
Graziano Rinaldi

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