Caste e Bhagavad Gita

Il seminario di Marco Ferrini dal 27 dicembre al 3 gennaio 2013 ha affrontato pochi ma impegnativi shloka (strofe) dell’ultimo capitolo (dal 23 al 47), che hanno a che fare col rapporto tra le attitudini naturali ed il ruolo sociale degli esseri umani. Il titolo che ho dato al post può far pensare che il seminario abbia avuto come focus l’analisi delle caste in India. Non è propriamente così, poiché nella Bhagavd Gita tutto parte e torna dall’individuo, non c’è mai uno scivolamento versoCrucianella maritima l’incasellamento totalitario nell’uomo-massa, nelle ferree categorie socio-economiche che bene abbiamo conosciuto nelle società autoritarie e democratiche occidentali del novecento.

Eppure quella delle caste in India è un luogo comune ed una realtà ben visibile.

Il Mahabharata che è l’epica fondativa di questa civiltà e la Bhagavad Gita, che fa parte di questa narrazione ne è anche la sintesi più luminosa, per l’appunto i versi analizzati in questo seminario di Marco Ferrini possono essere considerati il substrato culturale dal quale nasce l’organizzazione sociale e politica indiana.

Per un’analisi dettagliata che richiederebbe uno spazio ben maggiore di un post, rimando ai numerosi interventi di Marco Ferrini che più volte ha trattato in modo documentato e non convenzionale questo tema.

Nell’organizzazione socio-politica dell’India classica sono previste quattro classi sociali (varna) e quattro stadi di evoluzione individuale (ashram), l’armonizzazione di varna ed ashram è il presupposto per indirizzare la vita umana verso la realizzazione spirituale, unico e vero scopo dell’esistenza nella cultura vedica.

Sebbene si stia parlando di una civiltà, quella vedica, di molti secoli antecedente a quella greca, non sorprenderà constatare che la divisione in classi è molto simile, infatti all’apice non sta il monarca, ma i bramani, rapportabili a quell’aristocrazia dei filosofi teorizzata da Platone nella Repubblica; gli kshatrya sono i guerrieri, gli uomini prevalentemente impulsivi di Platone, infine gli individui più inclini ai desideri del corpo (vaisha e shudra) destinati ai lavori manuali. Sia in Platone che nella Bhagavad Gita, gli uomini non si differenziano per nascita ma per attitudini naturali, quindi è teoricamente previsto sia nell’immaginaria società platonica che in quella vedica una dinamica mobilità sociale. E’ anche vero che normalmente i figli somigliano ai genitori, come afferma lo stesso Platone: “Ordinariamente voi generate figli simili a voi stessi…” (Rep., 415).

Sempre nella Repubblica, con la descrizione del mito di Er, emerge la figura del daimon che ogni uomo si sceglie durante il processo di reincarnazione, ma che alla nascita è destinato a dimenticare: nel ritrovare in vita il proprio daimon è la piena realizzazione umana.

Nella Bhagavad Gita però questa dottrina è spiegata in modo più fluido, con premesse che hanno un respiro psicologico inimmaginabile alla civiltà greca e in unapia visone antropologica stabilmente posizionata su valori spirituali.

Per questo ritengo abbia fatto bene Marco Ferrini ad aver impostato questo seminario, che rischiava di presentare l’aspetto socio-economico della civiltà vedica come un modello aureo ma inattuale, sull’essenza del messaggio della Gita: la responsabilità individuale per la virtù e la consapevolezza.

Swabhaba e swadharma, la propria natura e il proprio dovere, individuo e azione, questi sono i cardini del XVIII capitolo, ma non sono perni fissati nel granito, essi appartengono infatti al mutevole gioco della prakriti e la Bhagavad Gita insegna proprio la scienza di portare in alto la nostra natura attraverso l’azione perfetta.

Solo agli esseri umani è dato ritrovare il proprio daimon!

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