Sul Destino, di Claudio Widmann

Ho appena finito di leggere un piccolo libro dall’impegnativo titolo: Sul destino, di Claudio Widmann, ediz. Magi, poco più di 200 pagine che scorrono fluide come l’olio.

Ho pensato di condividere alcune riflessioni su questa lettura perché vi ho ritrovato affinità con importanti temi affrontati negli insegnamenti di Marco Ferrini.

La prima questione è se esista o meno un destino individuale.

L’autore la pensa come noi: Dio non gioca a dadi (Einstein). Ecco allora che sorge la domanda centrale del lavoro di Widmann: qual’è il rapporto tra destino e libertà individuale? Credo che il nucleo centrale ed il successo di questo elegante libriccino consista proprio nell’illustrare in modo convincente quanto il destino individuale non comporti determinismo e casualità, al contrario sia il presupposto ed il serbatoio energetico dell’impegno e della partecipazione individuale alla propria esistenza. Nonostante questa premessa nel primo capitolo l’autore avvisa che per quanto vi siano ampie possibilità di modificare il carattere e più in generale la soggettività di un individuo, vi sono limiti di soggettività che non sono passibili di modificazioni sostanziali; ognuno è portatore di un nucleo di personalità scarsamente influenzabile, inaccessibile all’alterazione e alla manipolazione.

Secondo capitolo, Il caso e la fortuna. E qui siamo in buona compagnia: “Si parla di caso quando la nostra conoscenza è insufficiente per la predizione, come nel caso del gioco dei dadi” K. Popper, di Einstein abbiamo già detto, lo stesso Kant, rigorosamente razionalista, afferma che nel mondo non c’è spazio per il caso.

Il caso anagrammato diventa caos e questo ci porta nell’ambito della dualità casualità/causalità, o c’è la causa o c’è il caso… il fatto che noi riusciamo a vedere solo una parte della realtà porta ad interpretare come caos ciò che forse non lo è:

“Or tu che sé, che vuoi sedere a scranna,

per giudicar di lungi mille miglia

con la veduta corta d’una spanna?”

Paradiso XIX 79-81

L’io è capace di conoscere il presente solo con gli occhi bendati di una consapevolezza blanda, di guardare al passato con la vista corta della memoria, ed è manifestamente privo di chiaroveggenza atta a penetrare il futuro.

L’esoterismo è una risposta a questa complessità.

L’autore cita R. Steiner e la legge del karma, Schopenhauer e la biologia evoluzionista per arrivare all’idea che il destino si configuri all’interno dell’individuo, il quale eredita un genotipo non solo cromosomico ma anche familiare e collettivo che si manifesterà in un fenotipo che troverà infinite vie per manifestarsi. Qui non si parla di anima in senso proprio, ma di psiche: Se l’esoterismo assegna il compito di concepire il destino a un’anima che vaga attraverso le reincarnazioni, per altri quell’anima non abita i puri e remotissimi Regni Solari, ma è fin dall’inizio interna al corpo e intrinseca all’uomo. Origina dalle strutture biologiche dell’individuo, ma lungimiranti e coerenti. Questa anima, che nella lingua greca si chiamava psyche, è la psiche dell’uomo.

Capitolo IV, si entra nel vivo: l’inconscio è il destino “comunque si voglia designare ciò che sta in fondo alla psiche, certo è che queste energie forgiano il nostro destino” K.G. Jung

L’autore è uno studioso di miti e riti, oltre che un analista junghiano, pertanto non gli sfugge la correlazione tra miti, filosofie, religioni e la psicologia del profondo, scrive a proposito dell’inconscio: un’origine tanto primordiale da impregnare l’identità prima ancora della nascita; una potenza tanto enorme da soverchiare l’io; una realtà tanto concreta da materializzarsi matericamente nei geni e nella fisicità del corpo; un’inaccessibilità alla conoscenza tanto impenetrabile da essere del tutto imprevedibile; un’intenzionalità spesso evidente, ma tanto sconosciuta all’io da risultare chiara solo a posteriori; una coerenza di disegno tanto misteriosa da apparire fortuita e fatale; un’estraneità al conscio tanto radicale da farlo apparire estraneo all’individuo medesimo. Ciò che designiamo come caso, fortuna, fatalità è in questa prospettiva qualcosa di orchestrato da motivazioni inconsce, in questo senso l’inconscio è l’insieme di divinità che guidano la persona nel suo pellegrinaggio sulla Terra. Nelle profondità della psiche si gioca la partita tra tendenze evolutive e spinte involutive, tra luce e tenebra, coabitando la più alta nobiltà insieme a forze oscure e devastatrici, per questo può essere arduo spiegare certi aspetti autodistruttivi dell’inconscio. L’inconscio è agente di reazioni elementari… soggetto ad una generale entropia, che tende verso una progressiva decomposizione (il freudiano “ritorno all’inorganico)… Ma in altra concezione l’inconscio è il nucleo primigenio dell’individualità: dalla sua massa originaria si forma l’identità di ognuno. Questo è un passo decisivo verso un’etica della responsabilità individuale, qui entra in scena l’io (nel samkya sarebbe la buddy, la capacità discernente) che sceglie i criteri sui quali orientare la propria esistenza.

Capitolo V, focus. Nella rappresentazione del mito di Er da parte di Platone c’è l’idea di un’identità inconscia che accompagna l’anima per tutta la sua esistenza. In questo mito fondante della nostra civiltà, ogni anima “sceglie” il proprio paradigma di vita, impersonato da un daimon, il senso della vita consiste proprio nella realizzazione del proprio daimon, archetipo individuativo corrispondente ad un determinato modello di vita, la dea Lachesi (una delle tre Moire) avviserà: quanto più ciascuno onorerà la propria scelta, tanto più avrà di virtù; quanto meno l’onora, tanto meno ne avrà”. Daimon, destino, archetipo individuativo, modello di vita… ricorda il concetto di swadharma, il dharma personalizzato ad ogni essere, tanto più esplicitamente in quanto l’ambientazione del destino è in una dimensione inconscia, infatti nel mito di Er ogni essere dimenticherà il proprio daimon come ad ogni “giro di giostra” il karma cade in oblio alla coscienza.

C’è forte nel mito di Er il senso della responsabilità individuale, della scelta e della coerenza. L’obiettivo dell’essere incarnato è realizzare il proprio daimon: il daimon, compagno segreto e garante dell’adesione al personale paradigma di vita, compendia in sé lo stile personale dell’individuo, le sue caratteristiche soggettive (il carattere), la specifica mission del suo essere-nel-mondo, il percorso attraverso il quale egli realizza i propri obiettivi e la meta ultima della sua evoluzione. Questo archetipo individuale è il “principio di individuazione” di cui Duns Scoto delineò i lineamenti filosofici settecento anni prima che Jung ne sviluppasse le implicazioni psicologiche.

A questo punto entra in gioco l’io, ma qui è da intendere qualcosa che nella filosofia indo vedica viene suddiviso in diverse istanze, a partire dalla funzione cognitiva (indrya e manas) per arrivare al discenimento (buddhi) attraverso le identificazioni del soggetto (ahamkara). Il mito parla del daimon-inconscio come di un nucleo stabile dell’individuo, una configurazione di base della personalità che non tesse persecutoriamente i propri disegni alle spalle dell’io… come può superficialmente apparire, poiché quando l’io guarda ai disegni dell’inconscio, la sua visione non può che essere miope; lo sguardo della consapevolezza penetra i primissimi strati dell’inconscio e immediatamente la vista si offusca… consapevolmente si fanno progetti e si fissano mete, ma la Via la si segue inconsciamente… l’inconscio è solo una parte della psiche totale… il percorso evolutivo della specie e del singolo enuclea una porzione di coscienza sempre più ampia e sempre più solida… Jung ha documentato bene come la costellazione archetipica individuale trovi nell’Io la struttura psichica che è responsabile della sua realizzazione.

Qui è localizzato il libero arbitrio, nella responsabilità di partecipare al processo individuativo,  negare all’io questa dignità e questa responsabilità significa retrocedere l’evoluzione filogenetica allo stato preumano e a condizioni inumane; ascrivere all’io una potenza illimitata e una libertà assoluta significa cadere nell’inflazione e nell’onnipotenza narcisistica.

Dante ci soccorre: A maggior forza e a miglior natura liberi soggiacete…

la libertà di “soggiacere”, assecondare la propria natura più intima, in questa visione il proprio daimon.

Sull’io grava l’onerosa responsabilità di gestire la libertà interiore, che consente di affrontare spiritualmente in un modo o nell’altro le situazioni imposte. La libertà consiste nel trovare il significato della propria esistenza, è quel “conosci te stesso” della tradizione classica e se l’inconscio-destino custodisce il disegno individuale… l’io è chiamato alla partecipazione… l’uomo non può semplicisticamente lasciar fare alle divinità, come l’Io non può soltanto lasciar fare all’inconscio. L’io e il sé si integrano quando viene scoperto il proprio inconscio-destino: l’esperienza del destino diventa letteralmente esperienza di trascendenza, nel senso che l’Io si sente parte e partecipe di qualcosa che lo trascende. Dopo aver espresso ogni sua funzione, sente che è attivo nella psiche qualcosa di più grande, di più forte, di più lungimirante.

Se l’Io declina l’inconscio per raggiungere il daimon, là dove si esauriscono le funzioni dell’Io inizia la provvidenza del Sè, che è l’autentico depositario del disegno fatale; quando l’Io ha esaurito le sue risorse, trova ad accoglierlo le rassicuranti braccia del destino.

Se provvisoriamente usciamo dai nomi e scrutiamo i contenuti, se usiamo altre categorie, possiamo anche affermare come fa arco Ferrini che chi conosce se stesso conosce Dio, o come scrive Jung nell’incipit della sua autobiografia:  la mia vita è la storia di un’autorealizzazione dell’inconscio. E cosa scopre uno che svela il proprio inconscio? Forse la conoscenza di ciò che non è perituro e perciò la felicità?

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